La Voce dei Bancari  anno LII – N.4/2000

SPAZIO DONNA

 

di CRISTINA ATTUATI e SOFIA CECCONI

 

 

Alle radici del ruolo “di cura” della donna.

Alcune riflessioni sull’attualità del messaggio contenuto nel libro di Ruth

 

1. Il sottile “filo rosso” che collega le varie esperienze raccontate al femminile può senz’altro riconoscersi nel ruolo “di cura”, di figli, di mariti, di genitori, di congiunti e di anziani, ricoperto dalla donna nel tempo all’interno della nostra società.

            Ciò che viene raccontato nel libro di Ruth sembra, almeno ad una prima lettura, molto lontano, frutto di una cultura e di un ambiente piuttosto ostili per la donna e che tracciavano per la stessa dei percorsi prestabiliti, costringendola a muoversi ed a confrontarsi unicamente con l'universo familiare, senza poter realmente decidere sul proprio destino, e perdendo quindi il fondamentale diritto all’autodeterminazione.

            La comunità, la famiglia, la parentela erano sì strumenti di protezione e di garanzia di sopravvivenza, tuttavia rischiavano anche di trasformarsi in lecita costrizione ed inesorabile spersonalizzazione a causa del peso schiacciante esercitato dal gruppo sull'individuo.

            La domanda forse un po' polemica che sorge spontanea è se tutto ciò è veramente così lontano nel tempo. Quante sono oggi le donne, giovani o meno giovani, che possono veramente scegliere il proprio destino senza condizionamenti esterni?

            L’affievolimento di alcuni valori tradizionali, tra cui quello della famiglia, la disgregazione della comunità, l'attenuarsi dei legami tra generazioni ha davvero consentito alle donne moderne di conquistarsi un "posto al sole", o in realtà ha complicato la loro esistenza privandole di alcune garanzie, non solo economiche, ma anche affettive, su cui potevano fare affidamento nei momenti di difficoltà?

            E' molto difficile dare una risposta.

            Indubbiamente le donne negli ultimi anni hanno dovuto reinventare il loro ruolo nella società, prendendo le distanze, spesso in modo drastico, con tradizioni e con stereotipi che le avevano sempre compresse, ancorché avessero contribuito a proteggerle.

            Si è dunque rotto il patto fra generazioni, cancellando per sempre il ruolo “di cura” assegnato alla donna?

No, a ben vedere sono semplicemente cambiate le sue basi.

            La realtà è che le norme che regolano la comunità non sono più così definite, il clan non è più sinonimo di famiglia. Quest'ultima infatti ha subito un fenomeno di progressiva riduzione dei suoi componenti uscendo definitivamente dagli schemi tradizionali.

            Uomo e donna possono virtualmente appartenere a più famiglie senza che ciò implichi doveri o, come nel caso di Ruth e Noemi, diritti di sussistenza da far valere.

            In questa nuova visione sociale le donne meno giovani tendono quindi ad incoraggiare le nuove generazioni ad essere indipendenti a realizzare le proprie aspirazioni, ad interpretare, piuttosto che a subire la storia e le tradizioni, a costruirsi un'esistenza indipendente che sempre più tenda ad identificare la stabilità, non negli uomini o nei genitori, ma nei figli e sempre più spesso ed incalzante in una realtà di  indipendenza economica, nel lavoro, nella carriera.

            Che le donne svolgano un'attività extradomestica, che siano inserite nel mondo del lavoro con gli stessi diritti, almeno formali, dei loro colleghi, è ormai un fatto pressoché scontato.

            Meno scontata è la specificità del lavoro delle donne, il suo presentarsi come un insieme complesso di stili, di scelte e di atteggiamenti che fanno parte integrante dell'identità e della soggettività femminile.

            Oggi l'identità femminile si costruisce anche intorno al lavoro, oltre che, come accadeva tradizionalmente, solo ed esclusivamente in riferimento alla famiglia. La presenza femminile nei ruoli cardine della società, quali la politica, la cultura, il managemet …., diventa quasi sinonimo di trasformazione sociale, poiché, nel passato come nel presente, la donna con il suo ruolo e con la sua funzione ha sempre caratterizzato la struttura sociale; quindi il mutamento di tale ruolo sviluppa dinamiche di cambiamento nella famiglia, nell'economia e quindi nella società stessa.

            In questo ambito appaiono assai rilevanti, per le implicazioni sulla vita femminile, sia il fenomeno del declino della fecondità che quello della mortalità.

            Tuttavia nonostante una più ampia partecipazione alla vita sociale sia sicuramente sinonimo di una maggiore presa di coscienza delle donne e di una loro volontà di diventare protagoniste, non bisogna dimenticare che sussistono ancora profonde asimmetrie, indizi di un percorso ben lungi dall'essere consolidato.

            Gli ambiti più problematici restano quelli della divisione dei compiti nelle attività familiari e della diversità di redditi fra uomo e donna a parità di attività svolta.

            Ciò è probabilmente dovuto al fatto che spesso la rappresentazione sociale del lavoro è in effetti ciò che è svolto dagli uomini, mentre ciò che è svolto dalle donne, anche quando il lavoro è per il mercato e tanto più quando non lo è, trova spesso un minore riconoscimento sociale, una minore istituzionalizzazione anche nelle forme di visibilità e rilevazione statistica.

            Oggi più che nel passato, l'attività lavorativa della donna si articola su due binari paralleli della famiglia e del lavoro retribuito.

            Sono infatti ancora le donne che svolgono la maggior parte dei compiti di cura, più o meno collegati alla funzione riproduttiva. Si tratta di una miriade di azioni che costituisce un intreccio indissolubile di lavoro fisico e psichico che coinvolge la sfera degli affetti, dei riferimenti simbolici e che costituisce l'indispensabile fondamento del funzionamento della società.

           

2. Ma che cosa è quindi cambiato oggi rispetto ai tempi di Ruth e Noemi?

            La donna moderna è veramente “individualista”, “spregiudicata”, affetta dalla nevrosi di voler conciliare il proprio senso di autoaffermazione con la cura della famiglia che molti stereotipi descrivono? Noemi avrebbe ancora ragione di esistere in un contesto sociale come l’attuale, condannato ad un continuo divenire?

            Andiamo per ordine.

            Ruth come gran parte delle donne moderne lavora per garantire un futuro alla propria famiglia. Tuttavia, mentre nel passato era più netta la demarcazione socio-economica tra chi lavorava per bisogno e chi  si dedicava ad attività lavorativa, magari non retribuita per soddisfare le proprie aspirazioni, la donna di oggi, anche quella più umile, cerca di conciliare i due aspetti, guardando al lavoro come elemento di dignità e di crescita personale.

            L'universo femminile si è indubitabilmente complicato, ma l'affermazione di se stesse, che sempre più donne perseguono, non è sinonimo di egoismo bensì necessità di vivere consapevolmente ciò che le circonda.

            La vita quotidiana femminile è caratterizzata da un intreccio e da una complessa mescolanza di logiche e di codici simbolici, magari mutuati dalla tradizione, l'insieme composito di modalità di essere e di fare, nonché la fatica a tenere insieme questo tutto in maniera coerente e soddisfacente anche per gli altri.

            Ed ecco che si ritorna ancora su Noemi e sul rapporto di solidarietà tra generazioni, l'essere madri non significa più solo proteggere e guidare, ma stimolare le nuove generazioni ad individuare nella società che le circonda un ruolo compatibile con le proprie aspirazioni e con il benessere ed i progressi della comunità in cui vivono.

            Tutto ciò rispettando le tradizioni senza tuttavia temere di romperle quando le stesse pregiudicano la propria dignità e limitano l’apporto creativo nella società.

           

3. I problemi che si pongono per realizzare sul piano concreto l’obiettivo della piena integrazione uomo / donna nella società moderna sono principalmente quelli della valorizzazione delle risorse coniugate al femminile, nonché quello della conciliabilità fra lavoro e tempi “di cura”.

            Analizziamoli entrambi.

 

4. Un recente studio del CNEL, (Primo rapporto sul ruolo delle donne sullo sviluppo socio economico, Roma, 1999), che si occupa di valutare l’impatto che alcuni interventi legislativi, volti a garantire le pari opportunità e lo sviluppo professionale, ha evidenziato un significativo dato: nelle aree decisionali e di vertice (legislatori, dirigenti ed imprenditori) la presenza maschile continua ad essere preponderante, mentre la maggior parte delle donne occupate si concentra nelle professioni esecutive e/o  amministrative (50,8%), fra cui emergono le professionalità tecniche intermedie (23,6%) e quelle connesse alla vendita dei servizi (21,1 %).

            A confronto con altri Paesi europei (v. ad esempio la Gran Bretagna) in Italia solo una percentuale relativamente bassa di donne riesce ad arrivare a posizioni decisionali e/o di elevata professionalità. E ciò, non può ascriversi al fatto di una minore formazione: la segregazione femminile, infatti, non si verifica all’interno del sistema educativo, dal momento che le donne si presentano mediamente più formate degli uomini.

            Le laureate in cerca di occupazione sono il 7,2%, mentre gli uomini sono il 4,6%. E’ ovvio che il nostro sistema produttivo tende a non smaltire facilmente le professionalità elevate, ma altrettanto evidente come le donne siano svantaggiate in queste dinamiche, dal momento che, a parità di formazione, le organizzazioni produttive tendono a favorire le risorse maschili.

            In conclusione, dunque, i dati dimostrano come la donna non riesca a sfruttare completamente le proprie potenzialità nell’ambito del mercato del lavoro, restando indietro rispetto all’uomo, nonostante abbia una migliore base di partenza quanto all’aspetto formativo, e come poi, una volta entrata, non riesca a superare talune barriere pregiudizievoli che le impediscono di salire in alto, almeno di pari passo con i colleghi maschi, sui gradini della scala gerarchica che conducono fino alla “sala dei bottoni”.

 

            5. In secondo luogo, strettamente connesso con il primo, vi è il problema della conciliabilità con il ruolo “di cura”, nonché quello della qualità della vita riservata alla donna che lavora.

            Una relazione annuale del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale osserva come nel periodo compreso fra il 1991 ed il 1997 vi sia stato un numero elevatissimo di dimissioni da parte di donne in stato di gravidanza, fra cui si registra una punta in Lombardia di 16.379 casi.

            Ciò significa che la discriminazione femminile non si trova solo nella carriera, ma pervade addirittura l’esistenza stessa del rapporto di lavoro, finendo per essere messa in discussione la stabilità del vincolo, seppure attraverso l’ipocrisia del ricorso alle dimissioni, magari incentivate, della donna al momento della maternità, oppure nei primi anni di vita del bambino.

            Per la donna, dunque, il binomio maternità e lavoro rappresenta assai spesso un mix esplosivo, sia per la difficoltà oggettiva di raggiungere un’equa ripartizione nella gestione del proprio tempo, fra momenti di lavoro e non, sia per l’impoverimento dei rapporti sociali e della qualità della vita.

            Pare insomma che la vera alternativa per la donna rimanga attualmente quella  di scegliere fra lasciare il proprio lavoro, per dedicarsi a tempo pieno a svolgere il ruolo di madre, oppure conservare il proprio posto, però con ridotte aspirazioni professionali, e con il rischio di sprofondare nell’insicurezza e nell’insoddisfazione, per il fatto di sentirsi ingiustamente esautorata (ovvero, con un termine alla moda ed omnicomprensivo di diverse situazioni, “mobbizzata”) nell’ambito dell’ambiente di lavoro con conseguenze che possono riflettersi finanche sul proprio stato di salute.

 

            6. Quanto sinora detto evidenzia la necessità di concreti interventi legislativi e strutturali.

Il legislatore e le parti sociali da tempo si sono rivolte alla ricerca di un rimedio per offrire garanzie (v. ad esempio la legge per la tutela delle lavoratrici madri: l. 30 dicembre 1971, n. 1204; d.p.r. 25 novembre 1976, n. 1026; così pure la legge per la difesa degli interessi della madre e del padre lavoratore: l. 9 dicembre 1977, n. 903) e per potenziare l’occupazione femminile (cfr. la legge sulle pari opportunità: l. 10 aprile 1991, n. 125), anche nell’ambito di programmi professionali elevati (l. 215 del 1992 per l’imprenditorialità femminile).

Al di là di alcuni insormontabili retaggi culturali e delle ipocrite, seppur benevole, valutazioni sul merito delle diverse professionalità uomo – donna, situazioni queste che ancora tendono a “ghettizzare” il lavoro femminile, l’ostacolo insormontabile resta attualmente quello dell’organizzazione del lavoro e dei costi sociali. 

Basti pensare solo recentemente alcuni contratti collettivi (v. ad esempio il CCNL del credito – accordo 11 luglio 1999) hanno finalmente rimosso la pregiudiziale dell’inapplicabilità del lavoro a tempo parziale ai “quadri direttivi”, ampliando in questo modo la categoria dei soggetti che possono aspirare ad entrare a far parte del management aziendale.

La prestazione a tempo ridotto, in cui sono frequentemente impiegate le donne, rappresenta tuttavia per alcune imprese la “zona franca” delle tutele, (meno salario, meno formazione, rallentamento della progressione professionale ….), costituendo il bacino dove languiscono, spesso in posizione svantaggiata e dequalificata, tutti coloro non intendono e/o non possono collaborare a tempo pieno con il datore di lavoro. E’ innegabile infatti che l’immagine della “donna in carriera” sia frequentemente legata alla parificazione con il collega, ovviamente “uomo in carriera”, ed è dunque misurata sulla presenza in ufficio di entrambi: questo standard professionale, che ovviamente penalizza la «funzione» della donna nella collettività e ne sminuisce le potenzialità lavorative non collegate al trattenimento (temporale) in azienda, può essere rimosso solo ed esclusivamente se si accede applicazione generalizzata di diverse metodologie di lavoro e di intervento dello Stato.

           

7. La legge 196 del 1997 (meglio nota come “pacchetto Treu”) ha notevolmente incentivato l’occupazione diversa da quella standard.

            Vengono infatti offerti incentivi per le aziende che assumono dipendenti a part – time, si prevede inoltre un allentamento del regime sanzionatorio a carico delle imprese che impiegano personale con contratti a tempo determinato, viene altresì introdotto il lavoro temporaneo (c.d. interinale) per garantire alle aziende la presenza delle professionalità necessarie, nei tempi e nelle modalità più consoni alle esigenze di produzione, senza obblighi di assunzione definitiva.

            Le maggiori opportunità per il personale femminile provengono dunque anche dalla legislazione recente che conduce verso uno schema misto di flessibilizzazione, ovvero ad una diminuzione delle garanzie di taluni vincoli presenti nel rapporto di lavoro, concertata però con le Organizzazioni Sindacali per garantire la riconduzione dell’operazione generale entro una razionalità di sistema.

Sul piano contrattuale si è tentata poi la carta del “telelavoro”. E’ stato riconosciuto, infatti, che con il telelavoro il problema dell’organizzazione del lavoro e dell’orario viene notevolmente ridotto, offrendo nuove opportunità alla crescita professionale al femminile, adattandosi questa modalità lavorativa alle esigenze dell’individuo, piuttosto che costringere quest’ultimo a sottostare ai ritmi della fabbrica.

Taluni contratti, inoltre, hanno previsto l’utilizzo di questo strumento come ausilio alle lavoratrici in caso di maternità e nei primi anni di vita del bambino per limitare il ricorso a lunghi periodi di astensione facoltativa, dei permessi e/o delle aspettative non retribuite. La chance offerta all’universo femminile è di indubbia rilevanza, in quanto l’obiettivo di coniugare il lavoro con le esigenze dei figli e della famiglia rappresenta un importante risultato da raggiungere per l’interesse individuale e della collettività.

Tornando poi agli interventi legislativi, occorre ricordare la nuova disciplina sui congedi parentali (legge 8 marzo 2000 n. 53). La tecnica legislativa, in questo caso, accompagna alle maggiori garanzie (permessi, periodi di astensione sia per la madre che per il padre lavoratore) per la donna lavoratrice degli stanziamenti dello Stato che incentivano le imprese a promuovere programmi di flessibilità, fra cui il part - time ed il telelavoro ed offrono sgravi contributivi (del 50%) per le assunzioni a tempo determinato in sostituzione dei lavoratori in congedo.

            E’ importante sottolineare l’aspetto degli interventi strutturali dello Stato, dal momento che pare finalmente essere stata giocata dal nostro ordinamento la carta giusta per la promozione del lavoro femminile e delle pari opportunità: quella dell’incentivo e della riduzione dei costi per le imprese.

            L’esperienza ha infatti dimostrato l’inefficacia pratica degli strumenti che finiscono semplicemente per addossare ai soli datori di lavoro i costi sociali della maternità. Emanare una legge di soli vincoli per le aziende rispetto al lavoro femminile ed alla maternità in genere avrebbe determinato ancora una volta l’aumento delle percentuali di disoccupazione delle donne.

In conclusione, dunque, il legislatore sembra avere finalmente imboccato la strada giusta per garantire la parificazione uomo / donna nel mercato del lavoro, anche se ancora molto deve essere fatto. Perseguendo la strada del decentramento e della formazione “continua” ed “interattiva”, adesso garantita anche con le risorse comunitarie e non solo statuali, si potrà finalmente ottenere la presenza anche “virtuale” delle donne in azienda e consentire loro di conciliare finalmente, senza necessità di rinunce a priori, un ruolo serio e di responsabilità nel lavoro, con quello “di cura” nella società, potendo in questo modo sfoggiare, senza pericolo di contraddizioni, il simbolo doc della doppia “M” (Manager e Madre).