La Voce dei Bancari  anno LIII – N.4/2001

DIRITTO DEL LAVORO

“L’avvocato risponde”

 

di SOFIA CECCONI – Avvocato -Consulente legale Fabi

 

  

MOLESTIE SESSUALI: L’INTENZIONALITA’ PREVALE SULLA GRAVITA’  DELL’ATTO MOLESTO ?

 

Corte di Cassazione – sez. V° penale - sentenza n. 623 del 23 gennaio 2001.

 

Un’isolata e repentina “pacca sul sedere” non integra gli estremi del reato di cui all’art. 609 bis c.p. (violenza sessuale) quando non emergono elementi per ritenere quel gesto rappresentativo di concupiscenza di natura sessuale. 

 

Corte di Cassazione – sez. III° penale - sentenza n. 3990 dell’1 febbraio 2001.

 

Ripetuti palpeggiamenti al seno sono riconducibili all’ipotesi dell’art. 609 bis (violenza sessuale), là dove la condotta sia posta in essere con modalità idonee a vincere la resistenza della vittima. La violenza richiesta dalla norma è anche quella che si manifesta nel comportamento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, consentendo in tal modo di superare la contraria volontà del soggetto passivo.

 

Nota

 

Le sentenze in commento affrontano, seppure in modo contrastante, l’aspetto dell’elemento soggettivo dell’agente in caso di molestia sessuale.

La prima decisione esprime il discutibile principio secondo cui un’isolata e repentina “pacca sul sedere” da parte del datore di lavoro nei confronti di una dipendente non integra gli estremi di cui all’art. 609 bis c.p. (violenza sessuale) se non vi è la prova del c.d. intento dell’autore. La Suprema Corte, insomma, nel confermare quanto deciso dalla Corte d’Appello di Venezia, assolve definitivamente l’imputato dal reato di violenza sessuale per mancanza del necessario elemento doloso richiesto dalla fattispecie contestata.

Per converso l’altra sentenza presa in esame, che riguarda il caso di ripetuti palpeggiamenti al seno di alcune alunne da parte di un coordinatore amministrativo, afferma invece il principio secondo il quale la repentinità del “toccamento” è una forma di violenza sessuale essa stessa, in quanto permette di superare la volontà contraria della vittima. In questa fattispecie, naturalmente, la reiterazione del comportamento assume un rilievo alquanto decisivo per valutare l’intenzionalità.

Nelle due fattispecie la rapidità dell’azione del molestatore viene dunque valutata in modo diverso, al fine di escludere o meno la sussistenza dell’elemento intenzionale. Ad ogni modo, non può non essere oggetto di critica quell’orientamento della Cassazione che, prestando eccessiva attenzione all’elemento soggettivo del reato, prescinde dalla valutazione della gravità del fatto in sé: una “pacca” sul sedere, insomma, per quanto isolata e repentina, genera in chi la subisce un forte disagio ed imbarazzo ed invade la sfera sessuale della vittima con evidente lesione della propria dignità.

Al di là del disagio creato dal contrasto giurisprudenziale sopra evidenziato, desta comunque molta preoccupazione l’incertezza di tutela offerta dal nostro ordinamento sui reati a sfondo sessuale. È vero che la tutela di siffatti comportamenti può rintracciarsi in altre norme del codice penale, (v., ad esempio, l’art. 660 c.p. sulla molestia o disturbo alle persone; oppure l’art. 594 c.p. sul delitto di ingiuria), ma a ciò si può obiettare che simili interpretazioni offrono alla vittima solo armi spuntate per combattere comportamenti assurdi e gravemente lesivi sul piano personale e morale.

 

 

Cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 gennaio 2001 n. 150

È illegittimo il licenziamento se l’inadempimento non viene tempestivamente comunicato al lavoratore

 

In relazione alla tutela accordata dall'art. 7, l. n. 300 del 1970, in materia di sanzioni disciplinari, il principio dell'immediatezza - che esprime l'esigenza della continuità cronologica tra la mancanza disciplinare e la contestazione dell'addebito - non consente al datore di lavoro di ritardare detta contestazione, in modo da rendere difficile la difesa da parte del dipendente e da creare nello stesso  un legittimo affidamento sulla regolarità del proprio comportamento.

 

Nota

 

La Cassazione, occupandosi del caso di un ufficiale esattoriale licenziato per la scoperta da parte dell’azienda di un ammanco a lui imputabile superiore ai trenta milioni, dichiara nullo il conseguente licenziamento a causa dell’eccessivo ritardo della contestazione disciplinare.

È interessante osservare come il Supremo Collegio in questo caso supera e critica il diverso orientamento formatosi in materia che, interpretando elasticamente il principio della tempestività, ammette incondizionatamente il ritardo nella contestazione disciplinare, pur in assenza di uno specifico motivo obiettivamente valido e dal datore di lavoro seriamente provato.

Tale tesi interpretativa ha finito per svuotare di efficacia la tutela procedimentale offerta dalla norma statutaria al lavoratore (art. 7, l. n. 300/1970), giustificando per altro verso le carenze organizzative, le colpose omissioni ed i ritardi del datore di lavoro nella gestione ed amministrazione dei rapporti contrattuali con i propri dipendenti.

In conclusione, fra l’interesse del datore di lavoro di prolungare le indagini senza un motivo obiettivamente valido ed il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa deve prevalere, secondo la Cassazione, la seconda posizione. E ciò fra l’altro evita un ingiustificato favoritismo nei confronti del datore di lavoro che potrebbe così utilizzare la reiterazione del comportamento come elemento di maggiore gravità nell’irrogazione della sanzione disciplinare.