di Domenico Secondulfo
Docente di Sociologia Generale e di Sociologia dei Processi Culturali - Università di Verona
   
 
 

Questo è stato lo slogan con cui, qualche tempo fa, alcuni partiti della sinistra hanno sintetizzato, e direi in modo estremamente incisivo, lo stato di malessere che ha attraversato, soprattutto l'anno scorso e quest'anno, l'Italia in particolare e l'Europa in generale, in relazione ad un progressivo e cospicuo aumento dei prezzi al consumo, cui non ha fatto fronte un altrettanto cospicuo aumento dei salari e della ricchezza delle famiglie. Si è diffusa una forte sensazione di generale impoverimento, soprattutto all'interno della classe media, cioè di quel settore della popolazione che, dagli anni '60 in avanti, era stato il maggior beneficiario del "miracolo economico", vedendo anno dopo anno e generazione dopo generazione aumentare in maniera costante sicura il proprio tenore di vita, il proprio accesso ai consumi, la propria ricchezza. Ed era stato, anzi, proprio il ceto medio a dare la spinta decisiva all’enorme espansione dei consumi degli anni '80 e '90 del secolo scorso. Abbiamo più volte detto che questo era il fortunato intreccio di una serie di meccanismi mondiali, che vedevano diminuire il costo del lavoro, e quindi il costo delle merci, grazie alla delocalizzazione della produzione, e che quindi ritardava la crisi economica dell'Europa grazie alla presenza, appunto, di beni di consumo a basso prezzo che permettevano alla classe media di salvaguardare il proprio stile di vita. A quanto pare questa analisi, che speravo errata, si sta invece rivelando corretta e man mano che si aprono altri mercati per i beni di consumo e il costo del lavoro si alza anche nei paesi del terzo mondo, la portata della crisi economica europea affiora in tutto il suo peso. Fino ad ora è stato soprattutto il ceto medio ed il mondo dei salariati e stipendiati a soffrire di questa crisi; come accade in ogni crisi, chi ha un accesso più o meno protetto sul libero mercato si difende, almeno all'inizio, aumentando i prezzi delle proprie merci e dei propri servizi e scaricando il problema sul consumatore, cosa che invece non può fare chi è a reddito fisso. Di solito, purtroppo, la susseguente forte contrazione dei consumi fa espandere la crisi anche all'interno di chi ha redditi variabili, che iniziano, quindi, a variare anch'essi verso il basso. Non è neppure un caso che il settore in cui la sensazione di aumento sensibile dei prezzi, e quindi riduzione sensibile degli stili di vita, è più forte sia quello dei generi di largo consumo, rispetto ai quali i consumatori sono, naturalmente, più vincolati e con minori possibilità di ridurre gli acquisti. L'ondata neoliberista in cui siamo immersi, si associa poi a questo processo di indebolimento dei ceti medi, impoverendo quelle strutture dello Stato del benessere che ne garantivano la vita ed il futuro, nel tentativo di spostare ingenti quote di ricchezza dal sistema pubblico verso quello privato. Comincia ad essere oramai materia di giornalisti l'osservazione, da tempo fatta da chi è del mestiere, che una larga parte delle generazioni future, ed in particolare quelle provenienti dai famosi ceti medi, non potrà permettersi lo stile di vita e di consumo al quale era stata abituata dai propri genitori. Per quel che mi risulta, i responsabili della cosa pubblica di casa nostra si affannano a dire che si tratta di un effetto psicologico o della scarsa oculatezza negli acquisti da parte delle massaie, ma proviamo a dare uno sguardo a quello che ci racconta l'Istat sui consumi delle famiglie nel 2001, anno in cui, va precisato, gli effetti dell'attuale crisi erano appena percettibili. Va precisato anche che l'Istat parla di spesa e non di quantità acquistate, per cui bisogna ponderare con cura i dati osservati, per poter decidere se siamo di fronte ad un aumento dei consumi, e quindi adun aumento del benessere, oppure ad un aumento dei prezzi, e quindi ad una diminuzione dei consumi e del benessere. Presa nel suo complesso, la spesa delle famiglie italiane tra il 2000 e il 2001 (e si tenga ben presente che i problemi sono arrivati tra il 2003 e il 2004) non è variata in modo significativo, così come non è variata, sempre nel complesso, sia la spesa per gli alimenti che quella per tutto il resto. Ma vediamo un po' le singole voci. Aumentano del 4% le spese per frutta e ortaggi, diminuiscono del 5% le spese per il tabacco, mentre aumentano di quasi il 6% le spese per l'abbigliamento, del 4,3% quelle per l'abitazione e si contraggono invece le spese per le comunicazioni (meno 8%), per gli elettrodomestici (meno 7%), le spese per l'istruzione (meno 6,8%), per la sanità (meno 6%) e quelle per il tempo libero (meno 3,7%). Se per l'abbigliamento non è facile capire se si tratta di un aumento dei capi acquistati o del loro prezzo, credo che le spese legate all’abitazione, così come quelle legate alla frutta ed alla verdura possono essere facilmente attribuite ad un aumento dei prezzi più che degli oggetti acquistati, anche perché risulta abbastanza chiaro che i settori di consumo meno indispensabili subiscono tutti un robusto ridimensionamento. Volendo, l'unica eccezione potrebbe essere quella delle spese per comunicare, visto il trend di diminuzione dei prezzi dei cellulari, ma va anche detto che se diminuiscono i prezzi dei cellulari già in commercio, le "new entry", tecnologicamente più avanzate, più pubblicizzate e più appetite mantengono prezzi alti, quindi (come forse per gli elettrodomestici) la diminuzione, più che al calo dei prezzi, va forse attribuita al rallentamento dell'aggiornamento del parco macchine, quindi, in ultima analisi, ad una contrazione degli acquisti; stesso dicasi per la sanità, forse siamo diventati più sani invecchiando? Una ulteriore, illuminante, luce può giungere da uno sguardo sui dati disaggregati per macro aree socio economiche, Di solito le crisi economiche contribuiscono ad accentuare le differenze più che a limitarle, spesso il divario tra ricchi e poveri tende ad aumentare più che a diminuire, e sono soprattutto le file di questi ultimi che si ingrossano di "ex ricchi". Dando uno sguardo a come l'attuale critica situazione iniziava a modificare gli equilibri tra le varie aree del paese tra il 2000 e il 2001, salta all'occhio con particolare evidenza l'impoverimento del nord ovest in cui, evidentemente, le ricorrenti crisi del sistema industriale cominciavano già ad intaccare in modo significativo la ricchezza ed il benessere delle famiglie. Nel periodo che stiamo considerando, sono soltanto due le macro aree in cui si può osservare un calo della spesa: il sud in cui calano sia i consumi alimentari (meno 1,3%), sia quelli non alimentari (meno 4,6%), con una contrazione complessiva della spesa del 3,9%; ed il nord ovest in cui calano i consumi non alimentari (meno 1,9%) e restano invariati quelli alimentari. A fronte di queste due situazioni emergono con chiarezza due aree in cui invece la spesa aumenta (in parte forse per maggiori consumi in parte, come dicevamo per un aumento dei prezzi): il nord-est in cui mentre cala leggermente la spesa alimentare aumenta notevolmente la spesa non alimentare (più 3,8%), con un aumento complessivo della spesa pari al 3,2%; e le isole in cui aumentano sia la spesa alimentare (più 1,6%) che la spesa non alimentare (più 2,4%), con un incremento complessivo della spesa pari al 2,2%. Per quanto riguarda la macro area centro, il dato complessivo mostra una spesa tendenzialmente stabile, ma se guardiamo i dati disaggregati possiamo cogliere, a mio parere, i segni di un netto peggioramento della situazione. É l'area in cui la spesa per alimenti aumenta più che in ogni altra parte d'Italia (più 9,4%), con aumenti spalmati su tutti i generi esaminati, il che lascia supporre più un aumento dei prezzi che un improvviso attacco di appetito da parte degli abitanti di quella zona, mentre invece nel comparto non alimentare troviamo alcune decise contrazione di spesa, nell’istruzione ad esempio (meno 23%), ancora una volta nella sanità (meno 6,5%), nei trasporti (meno 8,1%) e nella comunicazione (meno 5,3%). Per quanto riguarda la contrazione della spesa non alimentare, l'ulteriore indicatore della crisi del nord-ovest è che nord ovest e sud seguono lo stesso modello di riduzione della spesa, anche se al sud i valori sono, ovviamente, più elevati. Ma anche nel ricco "nord est" c'è qualche segnale inquietante, è calato del 4,2% il consumo di carne, tradizionalmente considerato un indicatore di benessere, e calano del 3% e quasi del 9% le spese orientate verso il tempo libero e l'acquisto di servizi, qualcosa che assomiglia molto ad un campanello d'allarme. Quindi, a quanto pare, già tre anni fa si iniziava da varie parti a frenare, se il prossimo anno riuscirò ancora a comperare il rapporto dell'Istat, vi aggiornerò volentieri.