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Questo
è stato lo slogan con cui, qualche tempo fa, alcuni partiti della
sinistra hanno sintetizzato, e direi in modo estremamente incisivo, lo
stato di malessere che ha attraversato, soprattutto l'anno scorso e quest'anno,
l'Italia in particolare e l'Europa in generale, in relazione ad un progressivo
e cospicuo aumento dei prezzi al consumo, cui non ha fatto fronte un altrettanto
cospicuo aumento dei salari e della ricchezza delle famiglie. Si è
diffusa una forte sensazione di generale impoverimento, soprattutto all'interno
della classe media, cioè di quel settore della popolazione che,
dagli anni '60 in avanti, era stato il maggior beneficiario del "miracolo
economico", vedendo anno dopo anno e generazione dopo generazione
aumentare in maniera costante sicura il proprio tenore di vita, il proprio
accesso ai consumi, la propria ricchezza. Ed era stato, anzi, proprio
il ceto medio a dare la spinta decisiva all’enorme espansione dei
consumi degli anni '80 e '90 del secolo scorso. Abbiamo più volte
detto che questo era il fortunato intreccio di una serie di meccanismi
mondiali, che vedevano diminuire il costo del lavoro, e quindi il costo
delle merci, grazie alla
delocalizzazione della produzione, e che quindi ritardava la crisi economica
dell'Europa grazie alla presenza, appunto, di beni di consumo a basso
prezzo che permettevano alla classe media di salvaguardare il proprio
stile di vita. A quanto pare questa analisi, che speravo errata, si sta
invece rivelando corretta e man mano che si aprono altri mercati per i
beni di consumo e il costo del lavoro si alza anche nei paesi del terzo
mondo, la portata della crisi economica europea affiora in tutto il suo
peso. Fino ad ora è stato soprattutto il ceto medio ed il mondo
dei salariati e stipendiati a soffrire di questa crisi; come accade in
ogni crisi, chi ha un accesso più o meno protetto sul libero mercato
si difende, almeno all'inizio, aumentando i prezzi delle proprie merci
e dei propri servizi e scaricando il problema sul consumatore, cosa che
invece non può fare chi è a reddito fisso. Di solito, purtroppo,
la susseguente forte contrazione dei consumi fa espandere la crisi anche
all'interno di chi ha redditi variabili, che iniziano, quindi, a variare
anch'essi verso il basso. Non è neppure un caso che il settore
in cui la sensazione di aumento sensibile dei prezzi, e quindi riduzione
sensibile degli stili di vita, è più forte sia quello dei
generi di largo consumo, rispetto ai quali i consumatori sono, naturalmente,
più vincolati e con minori possibilità di ridurre gli acquisti.
L'ondata neoliberista in cui siamo immersi, si associa poi a questo processo
di indebolimento dei ceti medi, impoverendo quelle strutture dello Stato
del benessere che ne garantivano la vita ed il futuro, nel tentativo di
spostare ingenti quote di ricchezza dal sistema pubblico verso quello
privato. Comincia ad essere oramai materia di giornalisti l'osservazione,
da tempo fatta da chi è del mestiere, che una larga parte delle
generazioni future, ed in particolare quelle provenienti dai famosi ceti
medi, non potrà permettersi lo stile di vita e di consumo al quale
era stata abituata dai propri genitori. Per quel che mi risulta, i responsabili
della cosa pubblica di casa nostra si affannano a dire che si tratta di
un effetto psicologico o della scarsa oculatezza negli acquisti da parte
delle massaie, ma proviamo a dare uno sguardo a quello che ci racconta
l'Istat sui consumi delle famiglie nel 2001, anno in cui, va precisato,
gli effetti dell'attuale crisi erano appena percettibili. Va precisato
anche che l'Istat parla di spesa e non di quantità acquistate,
per cui bisogna ponderare con cura i dati osservati, per poter decidere
se siamo di fronte ad un aumento dei consumi, e quindi
adun aumento del benessere, oppure ad un aumento dei prezzi, e quindi
ad una diminuzione dei consumi e del benessere. Presa nel suo complesso,
la spesa delle famiglie italiane tra il 2000 e il 2001 (e si tenga ben
presente che i problemi sono arrivati tra il 2003 e il 2004) non è
variata in modo significativo, così come non è variata,
sempre nel complesso, sia la spesa per gli alimenti che quella per tutto
il resto. Ma vediamo un po' le singole voci. Aumentano del 4% le spese
per frutta e ortaggi, diminuiscono del 5% le spese per il tabacco, mentre
aumentano di quasi il 6% le spese per l'abbigliamento, del 4,3% quelle
per l'abitazione e si contraggono invece le spese per le comunicazioni
(meno 8%), per gli elettrodomestici (meno 7%), le spese per l'istruzione
(meno 6,8%), per la sanità (meno 6%) e quelle per il tempo libero
(meno 3,7%). Se per l'abbigliamento non è facile capire se si tratta
di un aumento dei capi acquistati o del loro prezzo, credo che le spese
legate all’abitazione, così come quelle legate alla frutta
ed alla verdura possono essere facilmente attribuite ad un aumento dei
prezzi più che degli oggetti acquistati, anche perché risulta
abbastanza chiaro che i settori di consumo meno indispensabili subiscono
tutti un robusto ridimensionamento. Volendo, l'unica eccezione potrebbe
essere quella delle spese per comunicare, visto il trend di diminuzione
dei prezzi dei cellulari, ma va anche detto che se diminuiscono i prezzi
dei cellulari già in commercio, le "new entry", tecnologicamente
più avanzate, più pubblicizzate e più appetite mantengono
prezzi alti, quindi (come forse per gli elettrodomestici) la diminuzione,
più che al calo dei prezzi, va forse attribuita al rallentamento
dell'aggiornamento del parco macchine, quindi, in ultima analisi, ad una
contrazione degli acquisti; stesso dicasi per la sanità, forse
siamo diventati più sani invecchiando? Una ulteriore, illuminante,
luce può giungere da uno sguardo sui dati disaggregati per macro
aree socio economiche, Di solito le crisi economiche contribuiscono ad
accentuare le differenze più che a limitarle, spesso il divario
tra ricchi e poveri tende ad aumentare più che a diminuire, e sono
soprattutto le file di questi ultimi che si ingrossano di "ex ricchi".
Dando uno sguardo a come l'attuale critica situazione iniziava a modificare
gli equilibri tra le varie aree del paese tra il 2000 e il 2001, salta
all'occhio con particolare evidenza l'impoverimento del nord ovest in
cui, evidentemente, le ricorrenti crisi del sistema industriale cominciavano
già ad intaccare in modo significativo la ricchezza ed il benessere
delle famiglie. Nel periodo che stiamo considerando, sono soltanto due
le macro aree in cui si può osservare un calo della spesa: il sud
in cui calano sia i consumi alimentari (meno 1,3%), sia quelli non alimentari
(meno 4,6%), con una contrazione complessiva della spesa del 3,9%; ed
il nord ovest in cui calano i consumi non alimentari (meno 1,9%) e restano
invariati quelli alimentari. A fronte di queste due situazioni emergono
con chiarezza due aree in cui invece la spesa aumenta (in parte forse
per maggiori consumi in parte, come dicevamo per un aumento dei prezzi):
il nord-est in cui mentre cala leggermente la spesa alimentare aumenta
notevolmente la spesa non alimentare (più 3,8%), con un aumento
complessivo della spesa pari al 3,2%; e le isole in cui aumentano sia
la spesa alimentare (più 1,6%) che la spesa non alimentare (più
2,4%), con un incremento complessivo della spesa pari al 2,2%. Per quanto
riguarda la macro area centro, il dato complessivo mostra una spesa tendenzialmente
stabile, ma se guardiamo i dati disaggregati possiamo cogliere, a mio
parere, i segni di un netto peggioramento della situazione. É l'area
in cui la spesa per alimenti aumenta più che in ogni altra parte
d'Italia (più 9,4%), con aumenti spalmati su tutti i generi esaminati,
il che lascia supporre più un aumento dei prezzi che un improvviso
attacco di appetito da parte degli abitanti di quella zona, mentre invece
nel comparto non alimentare troviamo alcune decise contrazione di spesa,
nell’istruzione ad esempio (meno 23%), ancora una volta nella sanità
(meno 6,5%), nei trasporti (meno 8,1%) e nella comunicazione (meno 5,3%).
Per quanto riguarda la contrazione della spesa non alimentare, l'ulteriore
indicatore della crisi del nord-ovest è che nord ovest e sud seguono
lo stesso modello di riduzione della spesa, anche se al sud i valori sono,
ovviamente, più elevati. Ma anche nel ricco "nord est"
c'è qualche segnale inquietante, è calato del 4,2% il consumo
di carne, tradizionalmente considerato un indicatore di benessere, e calano
del 3% e quasi del 9% le spese orientate verso il tempo libero e l'acquisto
di servizi, qualcosa che assomiglia molto ad un campanello d'allarme.
Quindi, a quanto pare, già tre anni fa si iniziava da varie parti
a frenare, se il prossimo anno riuscirò ancora a comperare il rapporto
dell'Istat, vi aggiornerò volentieri.
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