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La c.d. riforma
Biagi – che contempla un grappolo di disposizioni che vanno dalla
legge delega n. 30 del 2003 al d.lgs.n.276 del 2003 – disciplina
l’istituto del distacco, in precedenza richiamato, in forma alquanto
defilata, unicamente come risorsa per evitare fenomeni di riduzione del
personale (art. 8, comma 3, l. n. 236 del 1993), oppure con finalità
formativa (art. 16, comma 10, l. n. 451 del 1994). Quella insomma che
poteva definirsi – ancora in un recente passato – una fattispecie
di quasi esclusiva creazione giurisprudenziale, diviene ora, attraverso
l’art. 30 del decreto legislativo sopra menzionato, un istituto
legale a tutti gli effetti.
Anzitutto
viene introdotta la nozione del distacco che “ (...)
si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse,
pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro
soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa”.
A garanzia del lavoratore, viene inoltre ribadito che il datore
di lavoro distaccante rimane l’unico obbligato per il trattamento
economico e normativo del medesimo (art.30, comma 2). Ma non solo. Se
il distacco comporta un trasferimento da una unità produttiva ad
un’altra “sita a più di 50 Km da quella
a cui il lavoratore è adibito, il distacco può avvenire
soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o
sostitutive” (art. 30, comma 3 d.lgs. cit.).
Ciononostante, riguardo alla necessità o meno del consenso del
lavoratore, problema assai discusso nei precedenti dibattiti dottrinali
e giurisprudenziali, la nuova disciplina ha optato per una soluzione intermedia,
in quanto lo prevede soltanto quando dal distacco derivi un mutamento
di mansioni (art.30 comma 3).
In aggiunta alla disciplina legale è di recente intervenuta,
al fine di specificare ulteriormente i requisiti di validità del
distacco, la circolare n. 3 del 15 gennaio 2004 del Ministero del lavoro.
Quanto alla temporaneità la circolare chiarisce che tale concetto
coincide con quello di “non definitività”,
a prescindere, dunque, dalla effettiva entità
della durata, ovviamente fermo restando l’interesse del datore di
lavoro distaccante. Quanto a quest’ultimo (l’interesse del
distaccante), la circolare specifica che lo stesso può consistere
il qualsiasi interesse produttivo che non coincida con la mera somministrazione
di manodopera.
La circolare in esame ha, inoltre, chiarito che il consenso del
lavoratore al distacco che comporti un mutamento di mansioni “vale
a ratificare l’equivalenza delle mansioni nelle ipotesi in cui,
pur in assenza di demansionamento, vi sia una specializzazione e/o una
riduzione dell’attività svolta con riguardo al patrimonio
professionale del lavoratore”.
In base alla nuova disciplina, quindi, i requisiti per la
validità del distacco sono: a) l’interesse del distaccante,
il quale si arricchisce di ulteriori oneri di specificazione
(comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive)
nel caso in cui distacco comporti un trasferimento da una unità
produttiva ad un’altra “sita a più di
50 Km da quella a cui il lavoratore è adibito”, b)
la temporaneità del distacco e c) il consenso del lavoratore quando
il distacco comporti un mutamento di mansioni, da valutarsi in base alle
concrete attività espletate.
A tali requisiti dunque dovrà attenersi d’ora in poi la Banca
che intenda utilizzare tale strumento di flessibilità.
ANCHE CHI SVOLGE
MANSIONI SEMPLICI ED
ELEMENTARI HA DIRITTO
A VEDERE TUTELATA LA
PROPRIA PROFESSIONALITÀ
CASSAZIONE SEZIONE LAVORO 11 dicembre 2003
n. 18984.
La equivalenza delle mansioni, che condiziona la legittimità dell’esercizio
dello ius variandi, a norma dell’art. 2103 c.c., va verificata,
anche nell’ipotesi di attività semplici, sia sul piano oggettivo,
e cioè sotto il profilo della inclusione nella stessa area professionale
e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sul
piano soggettivo, in relazione al quale è necessario che le due
mansioni siano professionalmente affini, nel senso che le nuove si armonizzino
con le capacità professionali già acquisite dall’interessato
durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi.
Nota
La sentenza in commento concerne un interessante caso di dequalificazione
professionale. In particolare, un lavoratore, che ha svolto per alcuni
anni mansioni di segreteria e archivio, consistenti nel fare
fotocopie,
battere a macchina lettere, raccogliere e protocollare documenti è
stato collocato – in base al CCNL dell’industria chimica,
applicato al rapporto di lavoro – nella categoria E, posizione organizzativa
due, profilo impiegati.
A un certo punto, il datore di lavoro ha adibito il dipendente a mansioni
diverse, consistenti nel preparare le macchine per tagliare bobine di
cellophane, ritenendo di operare una modifica nel senso dell’equivalenza
professionale, giacché tali ultime mansioni in base al CCNL sopra
richiamato rientrano nella medesima categoria E, seppure in una posizione
organizzativa inferiore rispetto alla precedente e nel profilo operaio
anziché in quello impiegatizio.
Il lavoratore, vedendo radicalmente mutate le proprie mansioni, si è
dunque rivolto al Giudice, assumendo di essere stato ingiustamente dequalificato.
Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale, hanno respinto
il ricorso ritenendo legittimo il cambio di mansioni ed escludendo la
dequalificazione professionale.
Il Tribunale, in particolare ha affermato che, pur rientrando le nuove
mansioni nel profilo operaio, queste non erano dissimili dalle altre svolte
in precedenza, stante il carattere elementare e meramente esecutivo di
queste ultime e che, quindi, sul piano professionale non vi era differenza
tra i due tipi di mansioni.
Il lavoratore ha pertanto proposto ricorso per Cassazione.
La Corte di Cassazione, recependo un orientamento già espresso,
(v. Cass. 1 settembre 2000, n. 11457), ha accolto il ricorso affermando
che – anche nel caso di attività particolarmente semplici
– l’equivalenza delle mansioni deve essere comunque valutata,
non solo sotto il profilo dell’appartenenza alla medesima area professionale
e salariale, ma anche sotto il profilo dell’affinità professionale,
nel senso che le nuove mansioni devono armonizzarsi con la professionalità
acquisita dal lavoratore consentendo ulteriori accrescimenti della professionalità
medesima.
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