di Sofia Cecconi Consulente Legale Fabi      
Risposte ai quesiti
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Novità giurisprudenziali
 
  IL DISTACCO DOPO
LA RIFORMA BIAGI
La Banca presso cui lavoro utilizza da alcuni anni lo strumento del “distacco” per collocare i lavoratori, senza il loro consenso e per periodi indeterminati, presso diversi istituti di credito dello stesso “gruppo”. Ho letto sui giornali che qualcosa sta cambiando e vorrei sapere quali sono le novità introdotte dalla riforma Biagi in argomento.

(lettera firmata)
 
 

La c.d. riforma Biagi – che contempla un grappolo di disposizioni che vanno dalla legge delega n. 30 del 2003 al d.lgs.n.276 del 2003 – disciplina l’istituto del distacco, in precedenza richiamato, in forma alquanto defilata, unicamente come risorsa per evitare fenomeni di riduzione del personale (art. 8, comma 3, l. n. 236 del 1993), oppure con finalità formativa (art. 16, comma 10, l. n. 451 del 1994). Quella insomma che poteva definirsi – ancora in un recente passato – una fattispecie di quasi esclusiva creazione giurisprudenziale, diviene ora, attraverso l’art. 30 del decreto legislativo sopra menzionato, un istituto legale a tutti gli effetti.
Anzitutto viene introdotta la nozione del distacco che
(...) si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa”.
A garanzia del lavoratore, viene inoltre ribadito che il datore di lavoro distaccante rimane l’unico obbligato per il trattamento economico e normativo del medesimo (art.30, comma 2). Ma non solo. Se il distacco comporta un trasferimento da una unità produttiva ad un’altra “sita a più di 50 Km da quella a cui il lavoratore è adibito, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive” (art. 30, comma 3 d.lgs. cit.).
Ciononostante, riguardo alla necessità o meno del consenso del lavoratore, problema assai discusso nei precedenti dibattiti dottrinali e giurisprudenziali, la nuova disciplina ha optato per una soluzione intermedia, in quanto lo prevede soltanto quando dal distacco derivi un mutamento di mansioni (art.30 comma 3).

In aggiunta alla disciplina legale è di recente intervenuta, al fine di specificare ulteriormente i requisiti di validità del distacco, la circolare n. 3 del 15 gennaio 2004 del Ministero del lavoro.
Quanto alla temporaneità la circolare chiarisce che tale concetto coincide con quello di
“non definitività”, a prescindere, dunque, dalla effettiva entità della durata, ovviamente fermo restando l’interesse del datore di lavoro distaccante. Quanto a quest’ultimo (l’interesse del distaccante), la circolare specifica che lo stesso può consistere il qualsiasi interesse produttivo che non coincida con la mera somministrazione di manodopera.
La circolare in esame ha, inoltre, chiarito che il consenso del lavoratore al distacco che comporti un mutamento di mansioni “vale a ratificare l’equivalenza delle mansioni nelle ipotesi in cui, pur in assenza di demansionamento, vi sia una specializzazione e/o una riduzione dell’attività svolta con riguardo al patrimonio professionale del lavoratore”.
In base alla nuova disciplina, quindi, i requisiti per la validità del distacco sono: a) l’interesse del distaccante, il quale si arricchisce di ulteriori oneri di specificazione (comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive) nel caso in cui distacco comporti un trasferimento da una unità produttiva ad un’altra “sita a più di 50 Km da quella a cui il lavoratore è adibito”, b) la temporaneità del distacco e c) il consenso del lavoratore quando il distacco comporti un mutamento di mansioni, da valutarsi in base alle concrete attività espletate.
A tali requisiti dunque dovrà attenersi d’ora in poi la Banca che intenda utilizzare tale strumento di flessibilità.

 

 


ANCHE CHI SVOLGE
MANSIONI
SEMPLICI ED
ELEMENTARI
HA DIRITTO
A VEDERE TUTELATA LA
PROPRIA PROFESSIONALITÀ

CASSAZIONE SEZIONE LAVORO 11 dicembre 2003 n. 18984.
La equivalenza delle mansioni, che condiziona la legittimità dell’esercizio dello ius variandi, a norma dell’art. 2103 c.c., va verificata, anche nell’ipotesi di attività semplici, sia sul piano oggettivo, e cioè sotto il profilo della inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sul piano soggettivo, in relazione al quale è necessario che le due mansioni siano professionalmente affini, nel senso che le nuove si armonizzino con le capacità professionali già acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi.

Nota
La sentenza in commento concerne un interessante caso di dequalificazione professionale. In particolare, un lavoratore, che ha svolto per alcuni anni mansioni di segreteria e archivio, consistenti nel fare fotocopie, battere a macchina lettere, raccogliere e protocollare documenti è stato collocato – in base al CCNL dell’industria chimica, applicato al rapporto di lavoro – nella categoria E, posizione organizzativa due, profilo impiegati.
A un certo punto, il datore di lavoro ha adibito il dipendente a mansioni diverse, consistenti nel preparare le macchine per tagliare bobine di cellophane, ritenendo di operare una modifica nel senso dell’equivalenza professionale, giacché tali ultime mansioni in base al CCNL sopra richiamato rientrano nella medesima categoria E, seppure in una posizione organizzativa inferiore rispetto alla precedente e nel profilo operaio anziché in quello impiegatizio.
Il lavoratore, vedendo radicalmente mutate le proprie mansioni, si è dunque rivolto al Giudice, assumendo di essere stato ingiustamente dequalificato. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale, hanno respinto il ricorso ritenendo legittimo il cambio di mansioni ed escludendo la dequalificazione professionale.
Il Tribunale, in particolare ha affermato che, pur rientrando le nuove mansioni nel profilo operaio, queste non erano dissimili dalle altre svolte in precedenza, stante il carattere elementare e meramente esecutivo di queste ultime e che, quindi, sul piano professionale non vi era differenza tra i due tipi di mansioni.
Il lavoratore ha pertanto proposto ricorso per Cassazione.
La Corte di Cassazione, recependo un orientamento già espresso, (v. Cass. 1 settembre 2000, n. 11457), ha accolto il ricorso affermando che – anche nel caso di attività particolarmente semplici – l’equivalenza delle mansioni deve essere comunque valutata, non solo sotto il profilo dell’appartenenza alla medesima area professionale e salariale, ma anche sotto il profilo dell’affinità professionale, nel senso che le nuove mansioni devono armonizzarsi con la professionalità acquisita dal lavoratore consentendo ulteriori accrescimenti della professionalità medesima.