di Sofia Cecconi Consulente Legale Fabi      
Risposte ai quesiti
 
Novità giurisprudenziali
 
  SUI LIMITI AL MUTAMENTO
DELLE MANSIONI ORIGINARIE
Sono un dipendente bancario e sono inquadrato come quadro direttivo nel 2° livello retributivo di tale categoria (QD2). Dopo avere svolto dapprima compiti di natura specialistica all’interno dell’ufficio legale e, successivamente, le mansioni di ispettore, l’istituto di credito mi ha ora assegnato un incarico che prevede attività completamente diverse rispetto a quelle sino ad ora svolte. A seguito di un mio – seppure velato – reclamo,(….),il responsabile del personale mi ha risposto che la modifica è pienamente legittima, rientrando le nuove mansioni nell’inquadramento contrattuale da me posseduto.
Vorrei sapere se la posizione della Banca è corretta o meno.

(lettera firmata)
 
 

Il problema riguarda i limiti al potere datoriale di variare le mansioni del dipendente originariamente attribuite (c.d. jus variandi).
Sebbene il principio generale secondo cui il lavoratore ha diritto ad essere inquadrato nella categoria legale e nel livello contrattuale corrispondenti alle mansioni per cui è stato assunto (art. 96, co. 1, disp. att. cod. civ.) induca a ritenere che per l’eventuale variazione delle stesse occorra il consenso del lavoratore, ciononostante la giurisprudenza ritiene possibile lo scorrimento fra le diverse mansioni ad iniziativa unilaterale del datore di lavoro con il rispetto del criterio dell’"equivalenza" (art. 2103 c.c.).
Tale criterio, comunque, si arricchisce, sempre in base alla giurisprudenza, con l’obbligo imposto al datore di lavoro del rispetto del "patrimonio professionale" del lavoratore, inteso sia come inquadramento formale, sia come corredo di nozioni ed esperienze acquisite nel corso del rapporto di lavoro. Ciò ovviamente non significa che sussiste un interesse giuridicamente rilevante del lavoratore ad esprimere “al massimo” le proprie capacità lavorative nell’ambito del contesto professionale al medesimo riferibile (Cass., sez. lav., 11 giugno 2003, n. 9408), ma che, comunque, la legge sancisce un diritto alla valorizzazione professionale, che coincide con la salvaguardia delle capacità del singolo, da intendersi come effettivo “patrimonio genetico” della professionalità, suscettibile semmai di variazioni modali, in relazione ad una diversa organizzazione del lavoro, ma “… senza che ciò determini un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguenziale impoverimento della sua professionalità…” (Cass., sez. lav., 4 agosto 2000, n. 10284).
Orbene, nel caso prospettato l’illegittimità del provvedimento parrebbe derivare dalla completa estraneità delle nuove mansioni rispetto a quelle in precedenza svolte. È tuttavia evidente che per una completa valutazione – che ovviamente non può prescindere da una analisi concreta delle mansioni, che qui necessariamente si dà per scontata – occorrerebbe avere a disposizione ulteriori elementi come, ad esempio, la complessiva situazione aziendale e le esigenze tecnico - produttive che hanno condotto al provvedimento.
Nell’ipotesi infatti della soppressione dell’attività precedentemente svolta dal lavoratore, il datore di lavoro potrebbe trovarsi di fronte al bivio della riconversione della professionalità di quest’ultimo, oppure dello scioglimento del vincolo lavorativo per ragioni di carattere oggettivo. Di fronte al ricorso all’extrema ratio del licenziamento, pertanto, la valutazione del concetto di equivalenza professionale potrebbe – entro certi limiti – risultare ridimensionata rispetto a quanto sopra prospettato.
In conclusione, dunque, una “radicale” modifica delle mansioni, sebbene non violi l’inquadramento formale del lavoratore, potrebbe di per sé non essere corretta, a meno che la stessa non costituisca l’unica alternativa alla risoluzione del rapporto. Il lavoratore colpito dal provvedimento modificatorio illegittimo può pertanto richiedere il ripristino delle originarie mansioni o di altre effettivamente equivalenti in base ai criteri sopra esposti.

TRASFERIMENTO DISCRIMINATORIO
E ONERE DELLA PROVA
Tribunale di Firenze, ord. 29 settembre 2003
La prova della natura discriminatoria e ritorsiva di un trasferimento può essere fornita in via presuntiva. Costituiscono idonea prova presuntiva i pregressi trasferimenti e licenziamenti dello stesso lavoratore dichiarati illegittimi.

Il caso esaminato dalla decisione in commento, riguarda la complessa vicenda di un lavoratore, con qualifica di dirigente, che era stato dapprima trasferito e poi licenziato dal datore di lavoro con diversi provvedimenti impugnati dal medesimo e ritenuti illegittimi da parte dei giudici innanzi a cui erano state proposte le relative questioni. In precedenza, tuttavia, vi era stato anche un trasferimento giudicato legittimo dal Tribunale.
Infine, a fronte di un nuovo trasferimento, ritenuto legittimo in prima istanza, il Tribunale ha riformato tale decisione accogliendo il reclamo proposto dal lavoratore, ritenendo sussistere il carattere discriminatorio del provvedimento ed il carattere dequalificante delle mansioni assegnate a seguito del provvedimento medesimo.
Nel giungere a tale positiva conclusione, il Collegio afferma l’importante principio secondo cui la discriminatorietà del trasferimento deve sì essere provata dal lavoratore, ma tale onere può essere assolto anche attraverso presunzioni.
Nel caso di specie, dunque, tale circostanza viene desunta da vari elementi, come la presenza di lavoratori di pari grado in esubero presso la sede di destinazione del soggetto trasferito ed il fatto che fra diversi trasferimenti disposti nei confronti di più lavoratori, quello impugnato comporti il maggiore disagio per il rilevante spostamento geografico. A ciò deve aggiungersi anche il fatto che la società datrice di lavoro non ha provato la sussistenza di obiettive ragioni tecnico e produttive che imponessero proprio il trasferimento in questione.
In sostanza, dalla sentenza in commento consegue l’importante risultato secondo cui il complessivo comportamento del datore di lavoro può costituire prova presuntiva della discriminatorietà / ritorsività di un determinato provvedimento, potendo addirittura viziare un atto che, in un contesto diverso, potrebbe apparire di per sé legittimo.