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Il
problema riguarda i limiti al potere datoriale di variare le mansioni
del dipendente originariamente attribuite (c.d. jus variandi).
Sebbene il principio generale secondo cui il lavoratore ha diritto ad
essere inquadrato nella categoria legale e nel livello contrattuale corrispondenti
alle mansioni per cui è stato assunto (art. 96, co. 1, disp. att.
cod. civ.) induca a ritenere che per l’eventuale variazione delle
stesse occorra il consenso del lavoratore, ciononostante la giurisprudenza
ritiene possibile lo scorrimento fra le diverse mansioni ad iniziativa
unilaterale del datore di lavoro con il rispetto del criterio dell’"equivalenza"
(art. 2103 c.c.).
Tale criterio, comunque, si arricchisce, sempre in base alla giurisprudenza,
con l’obbligo imposto al datore di lavoro del rispetto del "patrimonio
professionale" del lavoratore, inteso sia come inquadramento formale,
sia come corredo di nozioni ed esperienze acquisite nel corso del rapporto
di lavoro. Ciò ovviamente non significa che sussiste un interesse
giuridicamente rilevante del lavoratore ad esprimere “al massimo”
le proprie capacità lavorative nell’ambito del contesto professionale
al medesimo riferibile (Cass., sez. lav., 11 giugno 2003, n. 9408), ma
che, comunque, la legge sancisce un diritto alla valorizzazione professionale,
che coincide con la salvaguardia delle capacità del singolo, da
intendersi come effettivo “patrimonio genetico” della professionalità,
suscettibile semmai di variazioni modali, in relazione ad una diversa
organizzazione del lavoro, ma “… senza che ciò determini
un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con
sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un
conseguenziale impoverimento della sua professionalità…”
(Cass., sez. lav., 4 agosto 2000, n. 10284).
Orbene, nel caso prospettato l’illegittimità del provvedimento
parrebbe derivare dalla completa estraneità delle nuove mansioni
rispetto a quelle in precedenza svolte. È tuttavia evidente che
per una completa valutazione – che ovviamente non può prescindere
da una analisi concreta delle mansioni, che qui necessariamente si dà
per scontata – occorrerebbe avere a disposizione ulteriori elementi
come, ad esempio, la complessiva situazione aziendale e le esigenze tecnico
- produttive che hanno condotto al provvedimento.
Nell’ipotesi infatti della soppressione dell’attività
precedentemente svolta dal lavoratore, il datore di lavoro potrebbe trovarsi
di fronte al bivio della riconversione della professionalità di
quest’ultimo, oppure dello scioglimento del vincolo lavorativo per
ragioni di carattere oggettivo. Di fronte al ricorso all’extrema
ratio del licenziamento, pertanto, la valutazione del concetto di equivalenza
professionale potrebbe – entro certi limiti – risultare ridimensionata
rispetto a quanto sopra prospettato.
In conclusione, dunque, una “radicale” modifica delle mansioni,
sebbene non violi l’inquadramento formale del lavoratore, potrebbe
di per sé non essere corretta, a meno che la stessa non costituisca
l’unica alternativa alla risoluzione del rapporto. Il lavoratore
colpito dal provvedimento modificatorio illegittimo può pertanto
richiedere il ripristino delle originarie mansioni o di altre effettivamente
equivalenti in base ai criteri sopra esposti.
TRASFERIMENTO DISCRIMINATORIO
E ONERE DELLA PROVA
Tribunale di Firenze, ord. 29 settembre
2003
La prova della natura discriminatoria e ritorsiva di un trasferimento
può essere fornita in via presuntiva. Costituiscono idonea prova
presuntiva i pregressi trasferimenti e licenziamenti dello stesso lavoratore
dichiarati illegittimi.
Il
caso esaminato dalla decisione in commento, riguarda la complessa vicenda
di un lavoratore, con qualifica di dirigente, che era stato dapprima trasferito
e poi licenziato dal datore di lavoro con diversi provvedimenti impugnati
dal medesimo e ritenuti illegittimi da parte dei giudici innanzi a cui
erano state proposte le relative questioni. In precedenza, tuttavia, vi
era stato anche un trasferimento giudicato legittimo dal Tribunale.
Infine, a fronte di un nuovo trasferimento, ritenuto legittimo in prima
istanza, il Tribunale ha riformato tale decisione accogliendo il reclamo
proposto dal lavoratore, ritenendo sussistere il carattere discriminatorio
del provvedimento ed il carattere dequalificante delle mansioni assegnate
a seguito del provvedimento medesimo.
Nel giungere a tale positiva conclusione, il Collegio afferma l’importante
principio secondo cui la discriminatorietà del trasferimento deve
sì essere provata dal lavoratore, ma tale onere può essere
assolto anche attraverso presunzioni.
Nel caso di specie, dunque, tale circostanza viene desunta da vari elementi,
come la presenza di lavoratori di pari grado in esubero presso la sede
di destinazione del soggetto trasferito ed il fatto che fra diversi trasferimenti
disposti nei confronti di più lavoratori, quello impugnato comporti
il maggiore disagio per il rilevante spostamento geografico. A ciò
deve aggiungersi anche il fatto che la società datrice di lavoro
non ha provato la sussistenza di obiettive ragioni tecnico e produttive
che imponessero proprio il trasferimento in questione.
In sostanza, dalla sentenza in commento consegue l’importante risultato
secondo cui il complessivo comportamento del datore di lavoro può
costituire prova presuntiva della discriminatorietà / ritorsività
di un determinato provvedimento, potendo addirittura viziare un atto che,
in un contesto diverso, potrebbe apparire di per sé legittimo.
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