di Sofia Cecconi Consulente Legale Fabi      
Risposte ai quesiti
 
Novità giurisprudenziali
 
 

SUGLI EFFETTI DELLA RIFORMA IN APPELLO
DELLA SENTENZA DI ANNULLAMENTO
DEL LICENZIAMENTO
La banca presso cui lavoro mi ha licenziato nel 2002 con un provvedimento disciplinare risultato illegittimo a seguito di sentenza pronunciata nel 2003, che obbliga la mia azienda a reintegrarmi nel posto di lavoro ed a pagare tutte le retribuzioni a far data dal licenziamento sino alla data della effettiva reintegra.
L’azienda ha proposto appello avverso la suddetta sentenza e – per il momento – si rifiuta di reintegrarmi, pur essendo tenuta al pagamento delle retribuzioni mensili.
Che cosa succederà nel caso in cui i Giudici di Appello dovessero riformare la sentenza di primo grado dichiarando il mio licenziamento legittimo? Dovrò restituire tutte le retribuzioni percepite?

(lettera firmata)

 
 

Per rispondere al quesito occorre distinguere tra quanto il lavoratore ha percepito nell’arco temporale ricompreso fra la data del licenziamento a quella della sentenza di primo grado e quanto percepirà per il periodo successivo alla suddetta sentenza.
Nulla quaestio se il dipendente, dopo la sentenza in questione riprende a lavorare. In questo caso la retribuzione percepita serve a compensare la prestazione resa e non è in alcun modo ripetibile.
Il problema, invece, si pone nel caso in cui il datore di lavoro non intenda avvalersi della prestazione del dipendente e paghi al medesimo le retribuzioni dovute, magari esprimendo la riserva di ripetizione in attesa dell’eventuale riforma da parte della sentenza di secondo grado.
Invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale formatosi prima dell’entrata in vigore della legge n. 108 del 1990, che ha modificato i primi 2 comma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il lavoratore, in caso di riforma della sentenza di annullamento del licenziamento, era tenuto a restituire quanto percepito a titolo di risarcimento del danno per il periodo dal licenziamento alla sentenza di primo grado, ma non la retribuzione dovutagli in caso di mancata esecuzione dell’ordine di reintegra, per il periodo dalla data della decisione di primo grado a quella della sentenza di appello. L’art. 18 St. Lav., infatti, nel testo precedente qualificava "risarcimento del danno" quanto dovuto al lavoratore per il periodo antecedente alla sentenza di primo grado e "retribuzione" quanto spettantegli in seguito all’ordine di reintegra.
Il nuovo testo della norma, invece, definisce “risarcimento del danno” sia le spettanze per il periodo precedente alla decisione del Giudice sia quelle che maturino dopo tale sentenza e fino all’effettiva reintegrazione. Ed è per questo che qualche autore (Vallebona, Breviario di diritto del lavoro, Giappichelli 2003, 358) pare sostenere la tesi secondo cui il dipendente sia tenuto alla restituzione globale del percepito in caso di riforma in appello.
Ciononostante, la giurisprudenza successiva alla novella ha confermato il precedente orientamento giurisprudenziale, affermando che legislatore del 1990 ha usato la qualificazione di “risarcimento” (riferito alla retribuzione dovuta anche dopo l’ordine di reintegra) in senso atecnico “attesa la funzione sanzionatoria e compulsoria dell’obbligo di corrispondere la retribuzione dopo l’ordine di reintegrazione” (Cass. 14 maggio 1998 n. 4881).
Una volta inteso l’ordine di reintegrazione quale comando di procedere all'ulteriore svolgimento del rapporto di lavoro non può negarsi che, anche sotto il regime del nuovo testo dell'art. 18, le retribuzioni corrisposte dalla data della sentenza (dichiarativa dell'illegittimità del recesso) a quella della reintegrazione effettiva, continuano a mantenere natura retributiva. Di conseguenza tali somme non solo sono irripetibili, ma stante la loro natura retributiva, ma sono anche insuscettibili di riduzione per effetto dell’aliunde perceptum.
In conclusione, per rispondere al quesito posto, il datore di lavoro, nel caso di riforma della sentenza di primo grado, potrà pretendere dal lavoratore la restituzione delle sole somme percepite per il periodo che va dalla data di licenziamento sino alla data della sentenza di primo grado e non anche la restituzione delle somme percepite dal lavoratore nel periodo successivo, ovvero per quello intercorrente tra le due sentenze.

SUL GIUSTIFICATO MOTIVO DI ASSENZA
IN CASO DI
VISITA DI CONTROLLO DI MALATTIA
CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO 2 MARZO 2004, N. 4247.
L’assenza alla visita di controllo può essere giustificata oltre che dal caso di forza maggiore, da ogni situazione, la quale, ancorché non insuperabile e nemmeno tale da determinare, ove non osservata, la lesione di beni primari, abbia reso indifferibile altrove la presenza personale del dipendente, come la concomitanza di visite mediche, prestazioni sanitarie o accertamenti specialistici, purché il lavoratore dimostri l’impossibilità di effettuare tali visite in orario diverso da quello corrispondente alle fasce orarie di reperibilità (Nella specie i giudici hanno escluso la sussistenza del «giustificato motivo» di assenza del lavoratore che si era recato dal proprio medico per il controllo della pressione in orario ricompreso nelle fasce di reperibilità).

Con la decisione di cui alla massima in epigrafe, la Suprema Corte torna ad occuparsi dell’aspetto del «giustificato motivo» di assenza del lavoratore dal domicilio nelle fasce orarie di reperibilità (10,00 -12,00; 17,00-19,00) in caso di visita fiscale per il controllo dello stato di malattia.
Tale questione è di particolare interesse in quanto, in mancanza di un valido motivo di assenza, il lavoratore decade dal diritto a qualsiasi trattamento economico – sia previdenziale che retributivo – per i primi giorni di malattia fino al decimo, mentre per l’eventuale ulteriore periodo perde la metà del trattamento; oltre a ciò, il lavoratore può essere oggetto di contestazione disciplinare da parte del datore di lavoro per l’ingiustificata irreperibilità.
Nel caso di specie, il lavoratore si era recato dal proprio medico per il controllo della pressione, controllo dovuto ad una sua particolare patologia (c.d. “epitassi posteriore da ipertensione arteriosa”). Ciononostante, secondo quanto rilevato in giudizio, il lavoratore non era riuscito a dimostrare la necessità e, soprattutto, l’indifferibilità dell’intervento, requisiti questi indispensabili per poterlo effettuare anche durante l’orario di reperibilità.
In altri termini, secondo l’impostazione giurisprudenziale in commento, il lavoratore può giustificare l’assenza alla visita fiscale di controllo solo ed esclusivamente dimostrando la necessità, e l’indifferibilità di recarsi presso un centro medico (ambulatorio, pronto soccorso ed altro) al di fuori di periodi legalmente indicati per la reperibilità.
Pertanto, alla luce di tale restrittiva impostazione giurisprudenziale, è opportuno che il lavoratore malato, nel caso in cui debba assentarsi dal proprio domicilio durante le fasce di reperibilità, chieda al medico di “certificare” l’indifferibilità dell’intervento, così da poter eventualmente giustificare l’assenza in caso di visita fiscale di controllo.