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Per
rispondere al quesito occorre distinguere tra quanto il lavoratore ha
percepito nell’arco temporale ricompreso fra la data del licenziamento
a quella della sentenza di primo grado e quanto percepirà per il
periodo successivo alla suddetta sentenza.
Nulla quaestio se il dipendente, dopo la sentenza in questione riprende
a lavorare. In questo caso la retribuzione percepita serve a compensare
la prestazione resa e non è in alcun modo ripetibile.
Il problema, invece, si pone nel caso in cui il datore di lavoro non intenda
avvalersi della prestazione del dipendente e paghi al medesimo le retribuzioni
dovute, magari esprimendo la riserva di ripetizione in attesa dell’eventuale
riforma da parte della sentenza di secondo grado.
Invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale formatosi prima
dell’entrata in vigore della legge n. 108 del 1990, che ha modificato
i primi 2 comma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il lavoratore,
in caso di riforma della sentenza di annullamento del licenziamento, era
tenuto a restituire quanto percepito a titolo di risarcimento del danno
per il periodo dal licenziamento alla sentenza di primo grado, ma non
la retribuzione dovutagli in caso di mancata esecuzione dell’ordine
di reintegra, per il periodo dalla data della decisione di primo grado
a quella della sentenza di appello. L’art. 18 St. Lav., infatti,
nel testo precedente qualificava "risarcimento del danno" quanto
dovuto al lavoratore per il periodo antecedente alla sentenza di primo
grado e "retribuzione" quanto spettantegli in seguito all’ordine
di reintegra.
Il nuovo testo della norma, invece, definisce “risarcimento del
danno” sia le spettanze per il periodo precedente alla decisione
del Giudice sia quelle che maturino dopo tale sentenza e fino all’effettiva
reintegrazione. Ed è per questo che qualche autore (Vallebona,
Breviario di diritto del lavoro, Giappichelli 2003, 358) pare
sostenere la tesi secondo cui il dipendente sia tenuto alla restituzione
globale del percepito in caso di riforma in appello.
Ciononostante, la giurisprudenza successiva alla novella ha confermato
il precedente orientamento giurisprudenziale, affermando che legislatore
del 1990 ha usato la qualificazione di “risarcimento” (riferito
alla retribuzione dovuta anche dopo l’ordine di reintegra) in senso
atecnico “attesa la funzione sanzionatoria e compulsoria dell’obbligo
di corrispondere la retribuzione dopo l’ordine di reintegrazione”
(Cass. 14 maggio 1998 n. 4881).
Una volta inteso l’ordine di reintegrazione quale comando di procedere
all'ulteriore svolgimento del rapporto di lavoro non può negarsi
che, anche sotto il regime del nuovo testo dell'art. 18, le retribuzioni
corrisposte dalla data della sentenza (dichiarativa dell'illegittimità
del recesso) a quella della reintegrazione effettiva, continuano a mantenere
natura retributiva. Di conseguenza tali somme non solo sono irripetibili,
ma stante la loro natura retributiva, ma sono anche insuscettibili di
riduzione per effetto dell’aliunde perceptum.
In conclusione, per rispondere al quesito posto, il datore di lavoro,
nel caso di riforma della sentenza di primo grado, potrà pretendere
dal lavoratore la restituzione delle sole somme percepite per il periodo
che va dalla data di licenziamento sino alla data della sentenza di primo
grado e non anche la restituzione delle somme percepite dal lavoratore
nel periodo successivo, ovvero per quello intercorrente tra le due sentenze.
SUL GIUSTIFICATO MOTIVO DI
ASSENZA
IN CASO DI VISITA DI CONTROLLO
DI MALATTIA
CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO 2 MARZO 2004,
N. 4247.
L’assenza alla visita di controllo può essere giustificata
oltre che dal caso di forza maggiore, da ogni situazione, la quale, ancorché
non insuperabile e nemmeno tale da determinare, ove non osservata, la
lesione di beni primari, abbia reso indifferibile altrove la presenza
personale del dipendente, come la concomitanza di visite mediche, prestazioni
sanitarie o accertamenti specialistici, purché il lavoratore dimostri
l’impossibilità di effettuare tali visite in orario diverso
da quello corrispondente alle fasce orarie di reperibilità (Nella
specie i giudici hanno escluso la sussistenza del «giustificato
motivo» di assenza del lavoratore che si era recato dal proprio
medico per il controllo della pressione in orario ricompreso nelle fasce
di reperibilità).
Con
la decisione di cui alla massima in epigrafe, la Suprema Corte torna ad
occuparsi dell’aspetto del «giustificato motivo» di
assenza del lavoratore dal domicilio nelle fasce orarie di reperibilità
(10,00 -12,00; 17,00-19,00) in caso di visita fiscale per il controllo
dello stato di malattia.
Tale questione è di particolare interesse in quanto, in mancanza
di un valido motivo di assenza, il lavoratore decade dal diritto a qualsiasi
trattamento economico – sia previdenziale che retributivo –
per i primi giorni di malattia fino al decimo, mentre per l’eventuale
ulteriore periodo perde la metà del trattamento; oltre a ciò,
il lavoratore può essere oggetto di contestazione disciplinare
da parte del datore di lavoro per l’ingiustificata irreperibilità.
Nel caso di specie, il lavoratore si era recato dal proprio medico per
il controllo della pressione, controllo dovuto ad una sua particolare
patologia (c.d. “epitassi posteriore da ipertensione arteriosa”).
Ciononostante, secondo quanto rilevato in giudizio, il lavoratore non
era riuscito a dimostrare la necessità e, soprattutto, l’indifferibilità
dell’intervento, requisiti questi indispensabili per poterlo effettuare
anche durante l’orario di reperibilità.
In altri termini, secondo l’impostazione giurisprudenziale in commento,
il lavoratore può giustificare l’assenza alla visita fiscale
di controllo solo ed esclusivamente dimostrando la necessità, e
l’indifferibilità di recarsi presso un centro medico (ambulatorio,
pronto soccorso ed altro) al di fuori di periodi legalmente indicati per
la reperibilità.
Pertanto, alla luce di tale restrittiva impostazione giurisprudenziale,
è opportuno che il lavoratore malato, nel caso in cui debba assentarsi
dal proprio domicilio durante le fasce di reperibilità, chieda
al medico di “certificare” l’indifferibilità
dell’intervento, così da poter eventualmente giustificare
l’assenza in caso di visita fiscale di controllo.
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