di Domenico Polimeni      
Le parti comuni nel condominio
 
 
 
   

Il lettore che ha avuto la pazienza di seguirci in precedenti "puntate" riguardanti la vita locativa, condominiale etc. degli immobili avrà notato che spesso iniziamo con qualche precisazione terminologica (ad esempio, abbiamo altra volta chiarito che in senso tecnico giuridico il termine locazione non è affatto sinonimo di affitto, mentre i migliori dizionari ammettono l'uso alternativo di questi due vocaboli nella lingua corrente).

Ciò non è dovuto a pedante amore di precisione, ma alla necessità di chiarirci bene le idee, in modo tale da poter poi leggere autonomamente le norme fondamentali del Codice Civile e risolvere quindi altrettanto autonomamente i problemi più frequenti e generali. In fondo scopo principale di questa rubrica è appunto questo….


Orbene, nel linguaggio comune il termine condominio è spesso usato come equivalente di fabbricato, palazzo, edificio etc. Ma in realtà queste ultime definizioni indicano solo delle realtà di fatto, mentre in teoria la parola condominio, se usata in senso tecnico, indica qualcosa di più, ovvero sia quel particolare tipo di fabbricato che ha parti comuni ed è di proprietà di due o più soggetti (e non di una sola persona, fisica o giuridica). Ancor più chiaramente dobbiamo quindi dire che se un fabbricato è composto sì da molti appartamenti, ma tutti di una sola persona, esso non può essere definito in senso giuridico quale condominio.

In particolare la parola condominio indica l'insieme delle parti di un fabbricato che sono proprietà comune dei proprietari dei singoli appartamenti o porzioni di cui il singolo edificio si compone. Quindi, se si vuole, quando usiamo la parola condominio come sinonimo di edificio mettiamo in atto quella figura retorica che usa una parte (le parti comuni) per indicare il tutto (l'intero edificio) composto da appartamenti, parti comuni, cantine, solai etc.

Ma quali sono in particolare le parti comuni? Esse si distinguono in generale in parti comuni necessarie e parti comuni facoltative. Le prime sono quelle inevitabilmente tali e che non possono essere oggetto di divisione, salvo casi particolari: ad esempio le scale, i passaggi comuni per accedere ai singoli appartamenti, il portone condominiale etc. (si veda l'art. 1117 del Codice Civile). Le seconde sono invece costituite da beni che in sé potrebbero essere proprietà di singoli, ma che per destinazione iniziale (da parte dell'originario proprietario del fabbricato) o per volontà unanime dei successivi condòmini sono stati messi in comunione. Tipico esempio di questa seconda categoria è rappresentato dall'alloggio del custode.
Le elencazioni dell'art. 1117 ora citato non sono tassative, il che significa che anche altre parti del fabbricato, che non sono indicate dal Codice, possono essere poste in comunione. Anzi è da dire che la legge svolge al riguardo una vera e propria presunzione di proprietà condominiale, sia pure non assoluta, di tutti quei beni che non risultino per destinazione o sulla base di titoli specifici quali proprietà esclusive dei singoli condòmini.

La ragione di tanto rigore sta nel fatto che se si dovesse dare peso a capziose teorie di singoli condòmini, la serenità della vita condominiale rischierebbe di essere compromessa ad ogni piè sospinto. Conseguentemente proprio la funzione base della casa in condominio, cioè quella di fornire ai singoli proprietari servizi ed utilità comuni a prezzi convenienti, che in via singolare sarebbero troppo esosi, rimarrebbe del tutto stravolta dalla eccessiva litigiosità e dalla facile sottrazione di beni logicamente comuni alla loro destinazione. Così la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (vale a dire nella sua composizione più autorevole) con una sentenza relativamente recente del 1993 (n. 7449), pur avendo chiarito che l'art. 1117 non ha affatto sancito "una presunzione legale di comunione delle parti comuni", ha comunque affermato che "detti beni sono comuni a meno che non risultino di proprietà esclusiva in base a un titolo, che può essere costituito o dal regolamento contrattuale o dal complesso degli atti di acquisto delle singole unità immobiliari o anche dall'usucapione".

Un quesito di ordine generale che può di frequente presentarsi per i lettori riguarda la possibilità che i condòmini, a maggioranza o all'unanimità, possano far cessare la condizione di proprietà comune riguardo a certi beni, vendendoli ad estranei o a singoli partecipanti al condominio. Dobbiamo allora tener presente che in linea di massima le maggioranze, anche se qualificate, cioè di molto superiori alla semplice maggioranza del 50 %, non possono mai comprimere i diritti dei singoli condòmini sulle parti comuni e che invece l'unanimità dei consensi ha notevoli possibilità di "manovra".

Tipico caso è quello dell'alloggio del portiere di cui abbiamo detto, magari rimasto libero dopo la cessazione del rapporto di portierato. In questo caso spesso i condòmini si trovano in imbarazzo, perché l'uso concorrente da parte di tutti è naturalmente disagevole e squilibrato (a differenza ad esempio di quanto accade per un terrazzo comune) e perché la messa a reddito dell'immobile in favore di tutti pone delicati problemi di ordine fiscale. Infatti la locazione dell'immobile dà in generale un reddito molto limitato per ciascun condòmino, stante la suddivisione del canone in millesimi, e d'altra parte impone la dichiarazione fiscale di questo piccolo reddito. Inoltre vanno rammentati i normali problemi di gestione di tutte le locazioni, che alla fine dovrebbero essere risolti dall'amministratore, magari con ulteriori costi aggiuntivi. Qui è poi da considerare che anche la semplice locazione di tale alloggio, salvo casi particolari, richiede il voto unanime di tutti i condòmini, la qual cosa rende probabile che anche uno solo di essi, magari per puro dispetto, si opponga.

D'altra parte, per venire all'ipotesi di vendita dell'alloggio ad uno dei condòmini o a terzi, a maggior ragione sarà necessaria l'unanimità dei voti, quindi di nuovo con piena possibilità di veto da parte di uno solo, anche titolare di pochi millesimi. Eppure la vendita, in un caso come questo, determinerebbe la soluzione dei problemi ora cennati ed inoltre darebbe un ragguardevole ricavato di liquidità al condominio, che potrebbe essere destinato ad esempio a rilevanti manutenzioni straordinarie delle parti comuni. Ma tant'è, molti lettori avranno notato in fabbricati condominiali propri, di amici o di parenti la presenza di alloggi, portinerie, seminterrati etc. melanconicamente inutilizzati ed in stato di palese abbandono e degrado (infatti ciò che non si usa normalmente deperisce). Vero è che in alcuni casi, di fronte all'ostruzionismo di singoli può essere tentata la strada della divisione giudiziale mediante azione da esercitarsi in Tribunale, ma è ipotesi questa raramente percorribile nei condominii e di difficile successo per ragioni che ometteremo per brevità.

Va tuttavia detto che l'abbandono di certi beni comuni deriva anche dall'equivoco banale in cui cade la generalità dei condòmini, vale a dire l'idea che per fare uso del bene sì comune, ma individuato, chiuso, circoscritto e poco accessibile, sia necessario il permesso dell'assemblea o dell'amministratore. Niente di più errato. Il Codice Civile detta una norma specifica in materia (art. 1102 comma 1) che vale per tutti i casi di comunione e quindi anche per i condominii: "ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa". Da questa regola consegue che l'uso individuale delle cose comuni è senz'altro possibile e senza il preventivo assenso di chicchessia, con l'unico limite, ovvio, di non limitare il paritetico uso da parte degli altri condòmini e di non effettuare interventi pregiudizievoli per la destinazione dei beni condominiali.