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NOTA
La sentenza in commento concerne la vicenda
di un dipendente bancario, licenziato a causa del superamento del periodo
di comporto, motivato dall’azienda con il rilievo che le assenze
per malattia avevano superato il periodo massimo di conservazione del
posto di lavoro (c.d. “comporto”) fissato dal contratto collettivo
in diciotto mesi.
Il lavoratore, a fronte del rifiuto dell’azienda di dar seguito
alla sua richiesta di specificazione delle assenze calcolate ai fini del
superamento del comporto, ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale
di Cosenza, il quale, in prima istanza, rigettato la domanda e, analogamente,
la decisione è stata confermata anche in appello.
Il lavoratore ha proposto così ricorso per Cassazione insistendo
nella sua tesi, ovvero quella dell’insufficienza di motivazione
nel provvedimento di recesso poiché nella lettera di licenziamento
non erano state indicate con precisione le assenze.
La Suprema Corte, confermando un proprio precedente orientamento (Cass.
sez. lav., n. 18199 del 2002 e n. 7316 del 2002) ha finalmente accolto
il ricorso del lavoratore, osservando che l’art. 2 della l. n. 604
del 1966 sulla forma del licenziamento e comunicazione dei motivi si applica
anche al recesso per superamento del periodo di comporto. La Corte ha
infatti sostenuto che i motivi del licenziamento devono contenere tutti
gli elementi volti a consentire al lavoratore di esercitare il suo diritto
di difesa, che non si risolve nella sola difesa giudiziaria, ma anche
nel diritto di impugnare consapevolmente il licenziamento nei termini
previsti dalla legge e nel valutare la convenienza o meno di intraprendere
un’azione giudiziaria.
In conclusione, quindi, la decisione in commento rafforza gli obblighi
motivazione del licenziamento posti in capo al datore di lavoro, garantendo
al dipendente il diritto a comprendere in forma completa e chiara le ragioni
del recesso.
MANSIONI SUPERIORI
“IN SOSTITUZIONE”:
QUALI DIRITTI SE L'ASSEGNAZIONE
È SOLO FORMALE?
Sono un dipendente bancario con qualifica di impiegato. Nell’organigramma
aziendale figuro come “sostituto” del preposto all’agenzia
(inquadrato come quadro direttivo); in realtà, da circa un anno,
l’azienda ha destinato quest’ultimo ad attività completamente
diverse da quelle in precedenza espletate, tanto che, addirittura, lo
stesso non è più presente in agenzia (...). Di conseguenza,
io svolgo quotidianamente i compiti del suddetto.
Alla luce di quanto esposto ritengo di non essere più un semplice
“sostituto”, ma di avere diritto al consolidamento della qualifica
e della retribuzione relativa alle mansioni superiori da me effettivamente
svolte.
(lettera firmata)
Il
problema va innanzitutto esaminato alla luce della disciplina legislativa
e contrattuale vigente. Riguardo alla prima, si evidenzia come l’art.
2103 del c.c. nel prevedere che nel caso di assegnazione a mansioni
superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività
svolta (art. 36 Cost.), precisa anche che l’assegnazione
stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione
del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo
un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore
a tre mesi. L’art. 6, l. 13 maggio 1985 n. 190 (nel testo sostituito
dall’art. 1, l. 2 aprile 1986 n. 106), inoltre, in deroga all’art.
2103 c.c., consente alla contrattazione collettiva di prevedere un termine
superiore a quello ordinario di tre mesi, affinché l’assegnazione
alle mansioni di quadro divenga definitiva.
Passando dunque alla disciplina convenzionale, si segnala che l’art.
67, ccnl 11 luglio 1999 (applicabile nel caso di specie) prevede che l’assegnazione
del lavoratore alla categoria dei quadri direttivi, ovvero dei relativi
livelli retributivi, diviene definitiva quando sia protratta per il periodo
di 5 mesi, a meno che non sia avvenuta in sostituzione di lavoratori assenti
con diritto alla conservazione del posto. La previsione convenzionale,
secondo la giurisprudenza (Cass. sez. lav. 16 giugno 2001, n. 8166), può
essere utilizzata nel caso in esame, escludendosi la sua riferibilità
alle sole ipotesi di passaggi meramente interni alla stessa categoria,
risultando altrimenti snaturato il senso ampio ed omnicomprensivo della
disciplina legislativa garantistica.
Venendo ora al caso sottoposto dal richiedente, si osserva come sia abbastanza
frequente che le aziende adottino un organigramma difforme – guarda
caso (quasi) sempre a svantaggio del lavoratore – rispetto all’effettiva
organizzazione aziendale. Di per sé, tuttavia, l’organigramma
non ha valore probatorio, per cui l’eventuale giudizio sul corretto
inquadramento del dipendente può prescindere dall’unilaterale
definizione che di questo ne viene data attraverso l’organigramma
dal datore di lavoro.
Se dunque il lavoratore in questione non ha espletato la semplice funzione
di sostituto, ma ha espletato l’attività lavorativa occupando
un posto rimasto vacante e, per di più, ha svolto in concreto mansioni
qualificabili come superiori, lo stesso ha diritto all’inquadramento
nella categoria dei quadri dopo cinque mesi di effettivo svolgimento di
tali mansioni.
Ricapitolando, dunque, il richiedente, nel caso in cui intenda agire in
giudizio, dovrà verificare la sussistenza dei due presupposti sotto
evidenziati, avendo infatti egli stesso l’onere di allegare e di
provare gli elementi posti a base della domanda. Il particolare il lavoratore
dovrà dimostrare:
a – la vacanza non temporanea della posizione di preposto. Ed infatti,
occorre dimostrare come, nonostante la posizione di preposto a succursale
sia assegnata dall’organigramma della banca ad un soggetto diverso,
la stessa sia effettivamente espletata dal richiedente, trovandosi pertanto
quest’ultimo nella posizione di “titolare” del posto
e non in quella di “sostituto”;
b – la sussistenza di tutti gli elementi di fatto e di diritto indicati
nella declaratoria contrattuale dei quadri (art. 66 ccnl 1999) al raffronto
con le mansioni svolte (Cass. sez. lav., 21.05.2003, n. 8025). A tal fine,
è appena il caso di ricordare, che non si può applicare
tout court il principio paritario dell’acquisizione dell’inquadramento
per identità di mansioni fra un lavoratore ed un altro.
In conclusione, pertanto, il lavoratore ha la possibilità di far
prevalere la realtà sulla forma a condizione che sia in grado di
dimostrare, in caso di diniego dell’azienda e, di conseguenza, dell’instaurazione
di un giudizio, le proprie ragioni.
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