Uno
dei pionieri del sindacalismo in banca se n’è andato in punta
di piedi in una fredda giornata di dicembre, dopo una lunga malattia.
Uomo mite, buono, onesto. Poteva essere scambiato per arrendevole da chi
non lo conoscesse.
Al contrario era di una fermezza granitica e di una durezza adamantina
quando si trattava di difendere i diritti dei lavoratori e di affermare
le posizioni del sindacato.
Erano gli anni duri, quelli dei primi passi del movimento in banca ed
il confronto con le aziende era fatto soprattutto di lotte e di scontri
reali, non solo verbali.
Lui rifuggiva dalle posizioni estreme e seppe tenere testa alle tentazioni
di chi voleva portare la Fabi ora a sinistra ora a destra.
Costante Pistocchi, l’uomo simbolo della prima fase della Fabi e
del sindacato in banca, lo chiamava affettuosamente “Sant’Agostino”,
perché tra i Segretari nazionali era quello che si occupava di
scrivere: sempre chino su qualche foglio pieno d’appunti, sempre
intento a preparare comunicati, a rivedere bozze di accordi, a stendere
proposte da usare in trattativa.
Per tutti gli altri, invece, era “il Barboncino” un nomignolo
che gli avevano appiccicato quand’era giovane ed aveva il vezzo
di una sottile barbetta, che probabilmente si lasciava crescere per attenuare
i tratti troppo dolci del suo viso.
Lavorava sodo, sino a tardi e quando lasciava i locali della Federazione,
raggiungeva la trattoria “Il Bersagliere”, vicino a Porta
Pia.
“Ordinava immancabilmente una balena” – ci ha svelato
Rino Cazzanelli, a cui ci siamo rivolti per avere un suo ricordo –
“Nel suo gergo familiare col proprietario del locale, significava
‘una sogliola. Consumava una cena frugale e poi si ritirava subito
nella stanza di una alberguccio, lì a due passi”.
Rino Cazzanelli ha diviso con lui l’esperienza di molti anni sia
nel Comitato Direttivo Centrale sia in Segreteria Nazionale.
“Circa una decina di anni fa, prima di ammalarsi, Francesco mi chiese
di accompagnarlo ad Ascona, dalla Rosina, la vedova di Costante Pistocchi
che era ritornata a vivere nella sua casa in Svizzera. Lo andai a prendere
alla stazione di Milano e poi, in macchina, proseguimmo per Ascona. Durante
il viaggio mi confessò d’aver abbandonato l’idea di
scrivere un libro sulla singolare esperienza di un’organizzazione
autonoma come la Fabi, nel panorama del sindacalismo italiano. ‘Sono
diventato vecchio e la memoria mi fa cilecca’ – mi disse.
E mi fece una grande tenerezza nell’ammettere quest’insulto
del tempo che passa. Proprio lui che era sempre stato ammirato da tutti
per la lucidità del pensiero, per il rigore con cui sapeva esporre
fatti e circostanze, per la brillantezza di una mente a cui nulla sfugge”.
Gli occhi di Rino si velano per un attimo di commozione, ma poi riprende
il suo ricordo: “Arrivati a destinazione, sfogliammo un libro con
le firme di molti fuorusciti, illustri e non, che durante il periodo fascista
avevano trovato ospitalità e rifugio nella casa della signora Rosina,
il cui padre era convinto mazziniano”.
“Fatico a dividere il suo ricordo da quello di Costante Pistocchi”–
conclude Rino Cazzanelli. “Mi sembra che siano sempre stati insieme
lui e Francesco e che se ne siano andati insieme, anche se trent’anni
hanno separato la fine del loro cammino”.
In pochi hanno accompagnato Francesco Cerutti nell’ultimo viaggio.
Ora riposa per sempre, ma il suo ricordo, insieme con quello di altri
“grandi padri” della Fabi resterà nei cuori di ha avuto
la fortuna di stargli vicino.
Ora che non c’è più, siamo tutti un po’ più
soli.
Ciao, caro Francesco.
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