di Sofia Cecconi Consulente Legale Fabi      
Risposte ai quesiti
 
Novità giurisprudenziali
 
 
  LA PRODUZIONE IN GIUDIZIO DI FOTOCOPIE
DI DOCUMENTI AZIENDALI
È LEGITTIMA SE NECESSARIA ALL’ESERCIZIO
DEL DIRITTO DI DIFESA.

Lavoro in banca da circa dieci anni ed ho sempre avuto ottimi rapporti con i colleghi e con i superiori (...). A seguito di una recente riorganizzazione aziendale sono stato trasferito per “soppressione dell’ufficio” a cui ero addetto. Tale modifica, a quanto mi risulta, esiste solo “sulla carta”, giacché al mio posto è stato collocato un altro dipendente che svolge le mie identiche mansioni; per provare tale situazione dovrei produrre in giudizio alcune lettere e fax comprovanti la prosecuzione dell’attività lavorativa del mio ex ufficio anche dopo il mio trasferimento. È lecito fare ciò, oppure rischio il licenziamento?

(lettera firmata)

 
 

La questione della legittimità o meno della produzione in giudizio dei documenti aziendali ha dato luogo ad un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale senza approdare, al momento, ad un risultato sicuro ed univoco.
Un primo e più risalente orientamento ha ravvisato l’illegittimità di siffatto comportamento (v. Cass., 25 ottobre 2001, n. 13188; Cass., 2 marzo 1993, n. 2560; e, nel merito, Trib. Milano, 31 ottobre 1997, in Lavoro giur., 1998, 591; Pret. Vicenza, 2 giugno 1995 in Notiziario giurisprudenza lav., 1995, 605; Trib. Lodi, 16 marzo 1982 in Orient. giur. lav., 1982, 1280) per la violazione da parte del lavoratore degli obblighi di riservatezza, con inevitabile lesione dell’elemento fiduciario (art. 2105 c.c.) e conseguente facoltà datoriale di irrogare la sanzione del licenziamento; una tesi intermedia ha invece ammesso che la produzione in giudizio di fotocopie di documenti aziendali riservati fosse un inadempimento più lieve rispetto a quello della sottrazione di documenti, non potendo da ciò discendere la liceità del licenziamento per l’evidente sproporzione fra il fatto contestato e la gravità della sanzione (Cass., 2 febbraio 2000, n. 1144; Cass., 9 maggio 1996, n. 4328); infine, un più recente orientamento si è spinto a conclusioni più radicali, dichiarando la liceità della produzione di documentazione aziendale, essendo questo, per il lavoratore, un mezzo per tutelare i propri diritti e, quindi, rappresentando una esigenza prevalente rispetto a quella di riservatezza del datore di lavoro (v. in tal senso Cass., 7 luglio 2004, n. 12528; Cass., 4 maggio 2002, n. 6420).
Venendo al quesito proposto, si segnala che una recentissima sentenza di Cassazione (Cass. 7 dicembre 2004 n. 22923), occupandosi di un caso analogo, ha confermato la facoltà del lavoratore di suffragare la domanda giudiziale attraverso la produzione delle fotocopie di alcuni documenti aziendali, ritenendo illegittime le ragioni del datore di lavoro che per tale motivo lo aveva licenziato, addebitandogli di aver violato i doveri di riservatezza e correttezza.
Tale tesi è stata giustificata dal Supremo Collegio con la prevalenza del diritto alla difesa rispetto alle esigenze di segretezza di dati in possesso del datore di lavoro, tanto più che la stessa normativa in tema di privacy non richiede il consenso dell’interessato nell’ipotesi in cui il trattamento sia necessario “per far valere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”.
Si segnala, ad ogni modo, che la giurisprudenza predilige – ai fini della legittimità del comportamento – che la produzione riguardi documenti fotocopiati (e non sottratti) dei quali il lavoratore sia venuto in possesso in modo lecito, rientrando (possibilmente) questi ultimi, direttamente o indirettamente, nella sua disponibilità.
In conclusione, a fronte di tale recente orientamento pare doversi escludere il rischio di licenziamento per la produzione in giudizio di fotocopie documenti aziendali da parte del lavoratore, sempre che queste siano state reperite in modo lecito. Ciononostante si suggerisce, ancora, di usare prudenza, essendo semmai preferibile – a fronte dell’ondivaga situazione giurisprudenziale – seguire la strada, meno rischiosa, di far disporre dal giudice il deposito della documentazione da parte del datore di lavoro (art. 210 c.p.c).

CHI SI ATTIENE AD UNA PRASSI INTERNA
DIFFORME DAL REGOLAMENTO AZIENDALE
NON COMMETTE INFRAZIONE DISCIPLINARE

Cassazione, Sezione Lavoro, 16 agosto 2004, n. 15950.
È illegittima la sanzione disciplinare della censura irrogata ad un impiegato di banca per aver consentito a un correntista il superamento del limite di affidamento senza richiedere l’autorizzazione della direzione nei modi previsti dal regolamento, in quanto, secondo la prassi costantemente seguita dalla banca, similari comportamenti assunti in precedenza dal lavoratore non avevano mai dato adito a rilievi, neppure verbali, rafforzando, quindi, nell’interessato il convincimento della loro legittimità.


La sentenza affronta l’interessante problema dei comportamenti del lavoratore conformi alla prassi, ma difformi dal regolamento aziendale, pervenendo alla condivisibile conclusione che i medesimi devono considerarsi legittimi, presumendosi l’accettazione implicita della modifica regolamentare per facta concludentia in caso di mancata opposizione da parte del datore di lavoro.
Nella specie, ad un dipendente del Banco di Napoli era stata irrogata la sanzione della censura per aver consentito ad un correntista il superamento del limite di affidamento senza richiedere a mezzo fax o per posta, come previsto dal regolamento, l’autorizzazione della direzione. Il lavoratore aveva sostenuto in giudizio di avere chiesto ed ottenuto l’autorizzazione allo sconfinamento per telefono, attenendosi ad una prassi interna, mentre la Banca si era difesa sostenendo l’irrilevanza di una prassi contraria al regolamento.
La Suprema Corte ha accolto le ragioni del lavoratore, ritenendo ingiustificato l’addebito disciplinare basato sulla violazione di regole procedimentali, essendo stata provata l’esistenza di una prassi diversa, non contrastata e quindi accettata dalla banca. La Corte, oltretutto, non ha ritenuto rilevante ai fini del decidere la mancata prova della tolleranza di tale prassi da parte della banca, essendo stato invece provato il fatto che nessuna iniziativa per “elidere” la medesima era mai stata adottata.
Per impedire la formazione della prassi, è bene notare, occorre che il datore di lavoro assuma una posizione di fermo diniego, giacché, secondo la giurisprudenza (Cass., 7 aprile 1998, n. 3591), qualora l’istituto bancario non prenda una posizione chiara su determinati tipi di operazioni che, in un contesto di prassi, (sotto molto aspetti lontane dai principi di correttezza, trasparenza e legalità), vengono tollerate da parte dei dirigenti della banca, non è possibile muovere addebiti ai singoli dipendenti in relazione alle operazioni stesse, presumendosi anche in questo caso l’accettazione tacita dei comportamenti da parte del datore di lavoro.