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Il
problema posto all’attenzione tocca alcuni aspetti formali e sostanziali
del patto di prova.
Anzitutto occorre premettere che la legge prevede la necessità
di stipulare per iscritto il patto di prova, (art. 2096 c.c.), mentre
in proposito nulla aggiunge di più specifico il contratto collettivo
dei bancari se non l’indicazione del termine massimo di durata.
Per rintracciare qualche spunto sul contenuto del patto occorre far riferimento
alla giurisprudenza, la quale, partendo dal presupposto che la causa del
patto di prova consiste nella tutela dell’interesse di entrambe
le parti contrattuali a sperimentare la reciproca convenienza al contratto
di lavoro, ha affermato che lo stesso deve contenere la «specifica»
indicazione delle mansioni in relazione alle quali l’esperimento
deve svolgersi, (Cass., 13 settembre 2003, n. 13498), non essendo oltretutto
sufficiente l’indicazione del livello contrattuale di inquadramento
allorquando il sistema classificatorio non fornisca una indicazione dettagliata
dei compiti allo stesso riferiti (Cass. 12 gennaio 2005 n. 427).
Tali previsioni di carattere formale sono necessarie per un controllo
sostanziale sulla legittimità della prova, ovvero per verificare
se in concreto il lavoratore ed il datore di lavoro hanno dato esecuzione
al patto mettendo a confronto rispettivamente le capacità professionali
del dipendente e la tipologia lavorativa richiesta.
Su un diverso piano si pone il periodo di addestramento del lavoratore,
che, ad esempio, il contratto collettivo dei bancari colloca – di
norma – nel corso del periodo di prova o, comunque, durante il primo
anno di assunzione. La formazione infine segue canali diversi e riguarda
l’intero percorso lavorativo del dipendente.
Se dunque la formazione esula dagli obblighi datoriali nel corso del periodo
di prova, l’addestramento ne entra invece a far parte nella misura
in cui la valutazione sulle effettive capacità professionali del
lavoratore non può prescindere dalla conoscenza diretta degli strumenti
operativi e delle modalità del loro utilizzo: l’addestramento
iniziale – dunque – deve essere perlomeno sufficiente a consentire
l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva.
Venendo alla questione posta dal richiedente, emerge anzitutto una probabile
indeterminatezza del patto di prova, poiché il riferimento all’inquadramento
contrattuale non identifica le mansioni, e, come detto sopra, non consente
di conoscere l’oggetto dell’esperimento; in secondo luogo,
il cambiamento, in periodi ravvicinati, dell’ufficio e/o delle mansioni
non consente al lavoratore di estrinsecare le proprie capacità
professionali ed al datore di lavoro di valutarle.
Le anomalie sopra riferite non sono tuttavia sanabili in carenza di consenso
di entrambe le parti, per cui l’eventuale giudizio negativo sull’esito
della prova da parte del datore di lavoro potrà essere sottoposto
al vaglio giudiziale per far dichiarare l’eventuale illegittimità
del recesso.
È ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO
IN TRONCO
MOTIVATO DALLA CRITICA AI VERTICI
AZIENDALI
CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, 17 GENNAIO 2005, N. 775
Non costituisce giusta causa di licenziamento, per violazione degli obblighi
scaturenti dall’art. 2105 c.c., l’esercizio da parte del lavoratore
del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro qualora non
siano travalicati i limiti della correttezza e il comportamento del medesimo
non si traduca in un atto illecito, quale l’ingiuria, la diffamazione
o, comunque, in una condotta manifestamente riprovevole e lesiva del decoro
dell’impresa datoriale.
L a massima riportata in epigrafe
si segnala per l’interessante questione affrontata dai giudici e
riguardante i limiti del diritto di critica del lavoratore.
Nel caso di specie, un dirigente aveva rivolto accese critiche ai vertici
dell’azienda datrice di lavoro, ma senza travalicare i limiti della
correttezza, deducendo fatti veritieri e, comunque, in modo tale da non
compromettere in modo irreparabile il vincolo fiduciario; per questa ragione
il licenziamento in tronco fondato sul presupposto della critica è
stato ritenuto illegittimo.
Per completezza si segnala che, in un caso diverso, (su cui v. Cass.,
14 giugno 2004, n. 11220), la Suprema Corte ha invece convalidato il recesso
datoriale conseguente alla critica rivolta dal lavoratore all’impresa
mediante un articolo di stampa in cui erano stati riportati fatti non
veri e con modalità tali da provocare un danno all’immagine
con perdita di commesse e di occasioni di lavoro. In questo caso, dunque,
il comportamento è stato dai giudici ritenuto idoneo a ledere definitivamente
la fiducia del datore di lavoro, costituendo giusta causa di licenziamento.
Analoghi limiti, seppure in forma più affievolita in ragione delle
garanzie costituzionali che vi sono sottese (artt. 21 e 39 cost), incontra
il diritto di critica del sindacalista, qualora ecceda la correttezza
formale, oppure leda la persona umana, anch’essa costituzionalmente
garantita (art. 2 cost.), con l’attribuzione, ad esempio, ai dirigenti
dell’impresa datoriale di qualità apertamente disonorevoli
e di fatti non provati (v. ad esempio Cass., 17 dicembre 2003, n. 19350),
oppure di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare
il disprezzo e il dileggio (Cass., 24 maggio 2001, n. 7091), o, ancora,
divulghi il contenuto di una comunicazione riservata (Trib. Cagliari,
8 agosto 2002, in Riv. giur. sarda, 2003, 42). |
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