di Sofia Cecconi Consulente Legale Fabi      
Risposte ai quesiti
 
Novità giurisprudenziali
 
 
  IL PATTO DI PROVA
DEVE FARE RIFERIMENTo
A SPECIFICHE MANSIONI

Sono stato assunto in prova da un istituto di credito. Nel contratto di assunzione non sono specificate le mansioni da svolgere ma solo l’inquadramento contrattuale. Poiché nell’arco di due settimane sono stato spostato in tre diversi uffici e mi sono state assegnati compiti diversi rispetto all’addestramento inizialmente impartitomi, vorrei sapere come devo comportarmi e, soprattutto, se sono obbligato a svolgere tutte le attività che mi sono richieste anche in assenza di formazione.

(lettera firmata)

 
 

Il problema posto all’attenzione tocca alcuni aspetti formali e sostanziali del patto di prova.
Anzitutto occorre premettere che la legge prevede la necessità di stipulare per iscritto il patto di prova, (art. 2096 c.c.), mentre in proposito nulla aggiunge di più specifico il contratto collettivo dei bancari se non l’indicazione del termine massimo di durata.
Per rintracciare qualche spunto sul contenuto del patto occorre far riferimento alla giurisprudenza, la quale, partendo dal presupposto che la causa del patto di prova consiste nella tutela dell’interesse di entrambe le parti contrattuali a sperimentare la reciproca convenienza al contratto di lavoro, ha affermato che lo stesso deve contenere la «specifica» indicazione delle mansioni in relazione alle quali l’esperimento deve svolgersi, (Cass., 13 settembre 2003, n. 13498), non essendo oltretutto sufficiente l’indicazione del livello contrattuale di inquadramento allorquando il sistema classificatorio non fornisca una indicazione dettagliata dei compiti allo stesso riferiti (Cass. 12 gennaio 2005 n. 427).
Tali previsioni di carattere formale sono necessarie per un controllo sostanziale sulla legittimità della prova, ovvero per verificare se in concreto il lavoratore ed il datore di lavoro hanno dato esecuzione al patto mettendo a confronto rispettivamente le capacità professionali del dipendente e la tipologia lavorativa richiesta.
Su un diverso piano si pone il periodo di addestramento del lavoratore, che, ad esempio, il contratto collettivo dei bancari colloca – di norma – nel corso del periodo di prova o, comunque, durante il primo anno di assunzione. La formazione infine segue canali diversi e riguarda l’intero percorso lavorativo del dipendente.
Se dunque la formazione esula dagli obblighi datoriali nel corso del periodo di prova, l’addestramento ne entra invece a far parte nella misura in cui la valutazione sulle effettive capacità professionali del lavoratore non può prescindere dalla conoscenza diretta degli strumenti operativi e delle modalità del loro utilizzo: l’addestramento iniziale – dunque – deve essere perlomeno sufficiente a consentire l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva.
Venendo alla questione posta dal richiedente, emerge anzitutto una probabile indeterminatezza del patto di prova, poiché il riferimento all’inquadramento contrattuale non identifica le mansioni, e, come detto sopra, non consente di conoscere l’oggetto dell’esperimento; in secondo luogo, il cambiamento, in periodi ravvicinati, dell’ufficio e/o delle mansioni non consente al lavoratore di estrinsecare le proprie capacità professionali ed al datore di lavoro di valutarle.
Le anomalie sopra riferite non sono tuttavia sanabili in carenza di consenso di entrambe le parti, per cui l’eventuale giudizio negativo sull’esito della prova da parte del datore di lavoro potrà essere sottoposto al vaglio giudiziale per far dichiarare l’eventuale illegittimità del recesso.

È ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO IN TRONCO
MOTIVATO DALLA CRITICA AI VERTICI AZIENDALI


CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, 17 GENNAIO 2005, N. 775
Non costituisce giusta causa di licenziamento, per violazione degli obblighi scaturenti dall’art. 2105 c.c., l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro qualora non siano travalicati i limiti della correttezza e il comportamento del medesimo non si traduca in un atto illecito, quale l’ingiuria, la diffamazione o, comunque, in una condotta manifestamente riprovevole e lesiva del decoro dell’impresa datoriale.

L a massima riportata in epigrafe si segnala per l’interessante questione affrontata dai giudici e riguardante i limiti del diritto di critica del lavoratore.
Nel caso di specie, un dirigente aveva rivolto accese critiche ai vertici dell’azienda datrice di lavoro, ma senza travalicare i limiti della correttezza, deducendo fatti veritieri e, comunque, in modo tale da non compromettere in modo irreparabile il vincolo fiduciario; per questa ragione il licenziamento in tronco fondato sul presupposto della critica è stato ritenuto illegittimo.
Per completezza si segnala che, in un caso diverso, (su cui v. Cass., 14 giugno 2004, n. 11220), la Suprema Corte ha invece convalidato il recesso datoriale conseguente alla critica rivolta dal lavoratore all’impresa mediante un articolo di stampa in cui erano stati riportati fatti non veri e con modalità tali da provocare un danno all’immagine con perdita di commesse e di occasioni di lavoro. In questo caso, dunque, il comportamento è stato dai giudici ritenuto idoneo a ledere definitivamente la fiducia del datore di lavoro, costituendo giusta causa di licenziamento.
Analoghi limiti, seppure in forma più affievolita in ragione delle garanzie costituzionali che vi sono sottese (artt. 21 e 39 cost), incontra il diritto di critica del sindacalista, qualora ecceda la correttezza formale, oppure leda la persona umana, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 cost.), con l’attribuzione, ad esempio, ai dirigenti dell’impresa datoriale di qualità apertamente disonorevoli e di fatti non provati (v. ad esempio Cass., 17 dicembre 2003, n. 19350), oppure di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio (Cass., 24 maggio 2001, n. 7091), o, ancora, divulghi il contenuto di una comunicazione riservata (Trib. Cagliari, 8 agosto 2002, in Riv. giur. sarda, 2003, 42).