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di Roberto Riva | ||||||||||||||||
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La stampa nazionale si sta occupando in questo periodo delle due OPA effettuate da due banche straniere, AMRO Bank e BBVA, rispettivamente su Banca Antonveneta e su BNL, per acquisirne il controllo. La Banca d’Italia sta tentando, come ha fatto finora, di difendere i due istituti di credito nazionale, cercando un appoggio da parte di investitori italiani. La vicenda, che al momento in cui questo articolo è stato scritto non si sa come andrà a finire, ci interessa soprattutto per le ricadute che potrebbe avere sulle condizioni di lavoro e di vita dei bancari italiani qualora le due banche – o una sola di esse – potesse acquisire il pacchetto di controllo, con il possibile e forse probabile seguito di tentativi di entrata sul mercato finanziario italiano da parte di aziende di credito straniere.
Le nostre osservazioni però non sono condivise dall’ABI, che sostiene, utilizzando dati campionari e parametri diversi da quelli della Banca d’Italia, l’esistenza di un divario nel rapporto fra costi e ricavi ancora eccessivo, trovando come esclusiva soluzione la riduzione dei costi, in primis quello del personale. L’incremento dei ricavi invece non è più percorribile secondo le banche, perché il mercato non lo consente più. Nel 2001 e nel 2002 le banche italiane hanno incrementato i ricavi lordi attraverso i margine derivanti dall’intermediazione finanziaria, approfittando della congiuntura favorevole, mentre nel 2003 e nel 2004 si sono trovate in difficoltà, a causa della crisi economica, e quindi il rapporto fra costi generali non derivanti dal personale e margine di intermediazione (fatturato) è aumentato in maniera sensibile. I ritardi nelle fusioni, la mancata concentrazione di servizi in molti casi hanno provocato un aumento dei costi per unità di prodotto. Nel periodo 2000-2003 le banche italiane hanno realizzato un incremento notevole dei ricavi lordi di bilancio, ottenuto anche con l’aumento delle tariffe su conti correnti, carte di credito e sulle commissioni di operazioni finanziarie. Questo fatto ha provocato notevoli proteste da parte della clientela e dalle associazioni dei consumatori, che affermano che non è stato giustificato da un contemporaneo aumento di efficienza dei servizi. Elio Lannutti, il presidente dell’Adusbef dichiara ad esempio che le banche italiane sono le più care e le più inefficienti d’Europa, a causa del protezionismo della Banca d’Italia, la mancanza di concorrenza e una politica di cartello. Senza generalizzare, perché la situazione in Italia è su questo punto assai differenziata, dobbiamo ammettere il ritardo nell’ambito della ristrutturazione rispetto alla concorrenza europea, che però sembra colmabile a patto che venga fatta finalmente una legge ad hoc sulla tutela del risparmio e vengano abbattute alcune imposte, come ad esempio l’Irap, recentemente sotto il mirino della Commissione Europea, che per inciso costa alle aziende bancarie il 5,40% sul valore aggiunto (utili lordi più costo del lavoro), più le addizionali regionali (ulteriore 1% ad esempio in Lombardia). Su questo concordiamo con l’ABI che il fiscal drag su utili netti aziendali, Irap e oneri aziendali è troppo elevato e crea squilibri differenziali difficilmente colmabili. Vengono quindi al pettine gli squilibri derivanti sia dai ritardi nel processo di riorganizzazione dei gruppi, delle carenze del legislatore e del sistema fiscale che vede la banca più come un’azienda in regime di monopolio, come era prima degli anni novanta, sulla quale si possono far ricadere costi che possono venir scaricati sull’utenza. Sui maggiori costi incidono anche la dimensione ridotta delle nostre banche rispetto alle concorrenti europee, che non permette risparmi di scala elevati. Un professore di economia aziendale dell’Università Cattolica di Milano, consulente sui sistemi informatici di numerose banche, stimava già due o tre anni fa che un centro informatico interno in un azienda al di sotto dei 5000 - 7000 dipendenti non era economicamente conveniente. La dimensione dei nostri gruppi rispetto alle realtà europee ci pone quindi già in difficoltà, aggravate dal fatto che alcune banche estere, specie anglosassoni, hanno trasferito centri servizi in paesi emergenti (India, Est Europa) che presentano costi più bassi. Invece da noi, anche per il problema della lingua oltre che per quello dimensionale, è difficile trovare soluzioni efficaci.
La critica pesante da parte delle associazioni dei consumatori è che le aziende non hanno migliorato l’efficienza o il volume d’affari, ma si sono limitate ad aumentare le tariffe e ad allargare gli spread il più possibile. L’ABI ha replicato alle critiche delle associazioni dei consumatori, affermando che i Bancomat e gli sportelli presenti sul territorio, in misura maggiore degli altri Paesi in rapporto alla popolazione, sono un indice di miglior servizio. Questo è vero se la distribuzione fosse omogenea nel territorio, ma poiché sappiamo che in realtà il Bancomat riflette quasi per intero la distribuzione degli sportelli, ne risulta invece un indice di inefficienza per i maggiori costi. Le banche italiane – come già detto di dimensioni minori alla media – presentano marcate sovrapposizioni sulla rete di sportelli, creando solo maggiore concorrenza all’interno di alcune aree, e sono carenti invece in altre. Quali sono dunque le prospettive e le soluzione per le banche italiane? La soluzione più giusta sarebbe quella della riorganizzazione dei servizi, da fare per vie interne nei gruppi medi ed in quelli grandi, e attraverso consorzi per quelli più piccoli e per le banche non appartenenti a gruppi. Molti gruppi con dimensioni maggiori stanno percorrendo la via interna, che non presenta molti rischi, ma notevoli costi di aggregazione e riorganizzazione, specialmente a carattere informatico. Tuttavia, vi sono, a fronte, molti benefici futuri, tra cui l’abbattimento dei costi delle transazioni informatiche, che, secondo quanto affermato da ricerche di mercato, possono essere ridotte a 1-2 cents di euro per operazione aggiuntiva (una volta impiantato il sistema) riducendo così il costo medio per operazione. Invece la strada obbligata per le aziende / gruppi più piccole sarebbe quella del consorzio oppure dell’outsourcing vero e proprio. Quest’ultimo rappresenta però un’incognita forte per via della segretezza, e molte aziende non sono disposte a mettere a fattor comune i dati, non tanto per mantenere la privacy dei clienti, ma per paura di vedersi portar via gli stessi da altre banche. Lo stesso problema si presenta anche per l’outsourcing, che presenta inoltre spesso problemi di costi aggiuntivi. L’esperienza ci ha inoltre insegnato che i servizi esternalizzati sono fonte di problemi sia per la clientela che per l’organizzazione interna della banca. La paura da parte nostra è invece che le aziende italiane, vista l’obiettiva difficoltà di riorganizzare in tempi brevi il ciclo del lavoro, tendano a ridurre il costo del lavoro attraverso l’espulsione dal sistema di quote consistenti di lavoratori, in parte sostituiti da lavoratori precari. Invece di un efficientemente dei servizi – che richiede tempi più lunghi e costosi interventi di riqualificazione del personale che danno i loro frutti solo dopo un certo tempo, la scorciatoia diventerebbe una rapida riduzione dei costi. Questo processo evidentemente comporta una riduzione della professionalità complessiva, perché la formazione di personale qualificato richiede tempo. La soluzione invece sarebbe la redistribuzione della rete di sportelli, attivando consorzi di servizi per le aziende a carattere regionale, ma anche a quelle nazionali qualora venisse adottato un sistema che eviti concorrenza sfrenata in alcune aree sviluppate, e contemporaneamente puntare sulla qualità dei servizi offrendo consulenze di personale qualificato e preparato. Sarà interessante nel prossimo futuro analizzare se le assunzioni con contratto di lavoro di apprendistato professionalizzante - che prevede una formazione di quattro anni – saranno rivolte più alla consulenza su affari e investimenti oppure se, come temiamo, le banche italiane utilizzeranno questo strumento solo per ridurre i costi, magari assumendo consulenti direttamente da altre aziende pagati molto di più (beninteso con contratto di lavoro a tempo indeterminato più inquadramento alto da subito), o magari prenderanno come prima assunzione personale che veniva definito un tempo “super laureati” sempre con contratto non di apprendistato, magari con un “ad personam”, perché “se no quelli da noi non vengono”. Ma le banche estere, se entrassero nel mercato italiano, farebbero ridurre i costi, oppure si limiterebbero a incassare di più, come del resto sta succedendo adesso (vedi la Deutsche Bank, che con la sua consociata italiana applica tariffe uguali alle banche di casa nostra, mentre in Germania ha prezzi minori)? All’inizio sembra più probabile la seconda ipotesi, ma poi la concorrenza, non più ristretta, potrebbe portare a benefici anche per l’utenza. Cosa potrebbe succedere ai lavoratori? Probabilmente poco, se le banche
estere si limitassero ad entrare senza voler mutare il mercato. In questo caso vi sarebbero grossi problemi per tutte le nostre banche, in ritardo come si diceva sulla riorganizzazione. Per qualcuna potrebbero anche esserci problemi di sopravvivenza: le soluzioni sarebbero un ridimensionamento, e in alcuni casi la cessione dell’azienda o di rami di essa. La situazione economica poi potrebbe portare al crollo della quotazione in borsa, e quindi scalate al pacchetto di controllo, anche dall’estero.
D’altra parte, una chiusura netta del sistema bancario italiano
non è conforme alle regole comunitarie: ci sembra quindi probabile
un processo graduale di ingresso delle banche estere, che darà
tempo ad alcuni gruppi bancari di sistemarsi. In conclusione, il fenomeno dovrebbe portare gradualmente una maggiore
efficienza del servizio con discreti miglioramenti per l’utenza,
sia nei costi dei servizi che della qualità di questi ultimi, ed
un miglioramento delle conoscenze professionali da parte della maggior
parte della categoria dei bancari. |
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