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Prima
di rispondere al quesito, mi sembra opportuno fare una breve ricognizione
sull’interessante vicenda del giornalista RAI citato dal richiedente.
Con provvedimento cautelare confermato in sede di reclamo, la RAI Radiotelevisione
Italiana S.p.a viene condannata a riammettere in servizio il giornalista
Michele Santoro come responsabile della realizzazione di programmi di
approfondimento dell’informazione giornalistica. Successivamente,
il Tribunale di Roma, con sentenza del 15 febbraio 2005, (che si può
leggere su www.legge-e-giustizia.it), conferma le precedenti decisioni
e precisa inoltre che la RAI dovrà affidare a Michele Santoro solo
programmi da trasmettere in prima o in seconda serata, in quanto la c.d.
“fascia oraria” di collocazione dei medesimi attiene alla
qualità delle mansioni, tutelata dall’art. 2103 cod. civ.
In sostanza, il principio di diritto espresso dal Supremo Collegio tutela
ad ampio raggio le mansioni: il concetto di equivalenza, sul quale si
incardina il principio dello jus variandi del datore di lavoro, non copre
infatti solo le mansioni del lavoratore, ma anche l’arcipelago circostante,
che comprende le condizioni lavorative che sulle stesse influiscono.
Venendo al caso di specie, il richiedente afferma di essere stato dequalificato
per una diversa distribuzione dei compiti lavorativi nell’ambito
delle funzioni di sviluppatore e per aver subito una diminuzione retributiva
a causa del progressivo riassorbimento dell’assegno ad personam.
Riguardo alla modifica delle mansioni, occorre valutare in concreto l’incidenza
di tale provvedimento sul livello professionale raggiunto dal dipendente,
sulla sua collocazione nell’ambito aziendale, e sulla rilevanza
del suo ruolo. Se infatti il provvedimento aziendale determina una significativa
sottrazione di mansioni con una conseguente diminuzione del globale livello
delle prestazioni ed una apprezzabile menomazione della professionalità,
oltre che alla perdita di chance, di ulteriori potenzialità occupazionali
e di ulteriori possibilità di guadagno, lo stesso si configura
senz’altro come illegittimo.
Quanto all’assegno ad personam – trattandosi probabilmente
di questione non risolta dalle parti pattiziamente – la giurisprudenza
afferma che lo stesso è riassorbibile negli aumenti della paga
sindacale, dei quali costituisce, in sostanza, una anticipazione, a meno
che tale carattere non sia stato esplicitamente escluso, ovvero il premio
sia stato attribuito in considerazione a particolari meriti del lavoratore,
od alle particolari qualità della prestazione dallo stesso fornita
(Pret. Prato, 17 febbraio 1992, in Toscana lavoro giur., 1992, 387). Nella
specie, dunque, il lavoratore dovrebbe dimostrare che il trattamento economico
individuale migliorativo del contratto nazionale gli è stato assegnato
in ragione del riconoscimento delle capacità professionali: la
progressiva eliminazione dello stesso costituirebbe pertanto un illecito
non solo sul versante “quantitativo” ma anche sul piano “qualitativo”
della posizione professionale.
Il parallelismo con la vicenda del giornalista televisivo, nella specie,
potrebbe dunque ravvisarsi sotto il profilo della dequalificazione operata
attraverso l’aggressione agli aspetti complementari delle mansioni,
quali quelli inerenti alle concrete modalità di espletamento delle
capacità lavorative. Nel caso Santoro, infatti, la modifica della
c.d. “fascia oraria” della trasmissione ha determinato la
dequalificazione, incidendo la stessa sull’ascolto, (c.d. audience),
che è il metodo di misurazione della professionalità; nel
caso prospettato dal richiedente, invece, si potrebbe azzardare l’ipotesi
– fermo restando che per una valutazione esaustiva del caso occorrerebbero
maggiori informazioni – che la riorganizzazione degli incarichi,
accompagnata dalla modifica del compenso, determinano un serio nocumento
alla professionalità del lavoratore, la cui identificazione sul
mercato dipende sia dalla quantità e qualità della clientela
trattata sia dalla retribuzione percepita in misura non solo variabile
ma anche fissa.
Il richiedente, qualora la sua pretesa possa essere ragionevolmente essere
inquadrata nello schema della dequalificazione secondo le coordinate sopra
evidenziate, potrà far accertare dal giudice l’illegittimità
del comportamento datoriale e tentare di ottenere il ripristino della
propria posizione lavorativa, oltre che il risarcimento dei danni subiti.
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE:
QUALI LIMITI PER L’AUDIZIONE
DEL LAVORATORE?
Corte di Cassazione, sezione lavoro, 13 gennaio 2005 n. 488 (il testo
completo si trova su www.cortedicassazione.it)
Allorquando il lavoratore, destinatario di
una contestazione di addebiti, svolga le proprie difese in forma scritta
e chieda contestualmente di essere sentito di persona, il datore di lavoro
ha l’obbligo di aderire alla richiesta del lavoratore di essere
ascoltato, e, ove il lavoratore non si presenti all’incontro per
malattia, la determinazione del datore di lavoro di non aderire alla richiesta
di fissazione di un nuovo incontro, non concretizza violazione dell’art.
7, l. 20 maggio 1970 n. 300.
La sentenza la cui massima viene sopra riportata si segnala per
il discutibile principio di diritto nella stessa enunciato, nonché
per gli spunti che dalla stessa possono trarsi per migliorare i metodi
di difesa del lavoratore nell’ambito del procedimento disciplinare
(art. 7, l. n. 300/1970).
Nel caso affrontato nella sentenza in esame, dunque, un lavoratore bancario
viene licenziato a seguito di una ispezione che evidenzia l’effettuazione
da parte di quest’ultimo di operazioni non conformi ai doveri contrattuali.
Dopo l’accertamento di illegittimità del recesso operato
dal giudice di primo grado, in appello e in cassazione la sentenza viene
riformata con conseguente dichiarazione della legittimità del provvedimento
datoriale di recesso.
In sostanza il supremo collegio afferma che il datore di lavoro è
obbligato a dare seguito alla richiesta del lavoratore di essere sentito
oralmente “(...) solo allorquando la stessa risponda ad effettive
esigenze di difesa non altrimenti tutelabili e non quando, invece, la
richiesta appaia dettata da fini meramente dilatori o sia stata avanzata
in modo equivoco generico o immotivato, ovvero emerga che la sua difesa
si è già esercitata esaustivamente attraverso le giustificazioni
scritte”.
In sostanza la decisione introduce alcuni aspetti generici ed arbitrari
non contemplati dall’art. 7, l. n. 300/1970: fra questi, uno è
che la richiesta di essere sentito oralmente deve essere formulata dal
lavoratore se esistono effettive esigenze di difesa; un altro è
che le giustificazioni scritte possono di per sé esaurire il diritto
di difesa del lavoratore.
L’approccio della Cassazione al problema pare tuttavia assolutamente
criticabile: la norma statutaria, infatti, non pone condizioni al diritto
di difesa del lavoratore, per cui il datore di lavoro deve esperire tutti
i livelli della procedura disciplinare prima di irrogare la sanzione.
Diversamente opinando si introdurrebbe una pericolosa crepa nell’iter
procedurale che legittimerebbe la possibilità di deroga in base
a valutazioni arbitrarie ed unilaterali del datore di lavoro.
In attesa di un (auspicabile) ripensamento della giurisprudenza sul punto,
pare opportuno suggerire al lavoratore, nel caso in cui sia sottoposto
ad un procedimento disciplinare, di inserire nella propria lettera di
giustificazione l’espressa riserva di manifestare ulteriori motivazioni
difensive nell’ambito dell’audizione, almeno per evitare che
queste siano tout court giudicate esaustive. |
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