di Sofia Cecconi Consulente Legale Fabi      
Risposte ai quesiti
 
Novità giurisprudenziali
 
  SUI CRITERI PER INDIVIDUARE LA
“QUALITÀ” DELLE MANSIONI
(Alcune osservazioni a margine della vicenda Santoro/Rai)

Mi trovo nel “circuito bancario” da molti anni e sono stato di volta in volta adibito a vari incarichi, maturando esperienza e professionalità. La banca presso cui attualmente mi trovo mi ha assunto per svolgere attività di sviluppo, riconoscendomi altresì un assegno ad personam per garantirmi un aumento di stipendio rispetto a quello già percepito presso il precedente istituto di credito. Dopo qualche tempo, tuttavia, la banca ha riorganizzato l’attività degli sviluppatori ed ha effettuato nei miei confronti il riassorbimento dell’assegno per effetto degli aumenti contrattuali (...). Recentemente ho letto sui giornali della vicenda del giornalista Santoro, che ha ottenuto la condanna della RAI alla assegnazione dei suoi precedenti incarichi e vorrei capire se, in questa prospettiva, vi sono possibilità per denunciare il comportamento aziendale, visto che non solo ho subito una dequalificazione professionale, (in termini economici e di qualità delle mansioni), ma ho subito un pregiudizio notevole per le mie future possibilità di carriera, avendo a suo tempo rifiutato altre proposte a fronte di accordi – scritti e non – dalla banca non mantenuti.

(lettera firmata)

 
 

Prima di rispondere al quesito, mi sembra opportuno fare una breve ricognizione sull’interessante vicenda del giornalista RAI citato dal richiedente.
Con provvedimento cautelare confermato in sede di reclamo, la RAI Radiotelevisione Italiana S.p.a viene condannata a riammettere in servizio il giornalista Michele Santoro come responsabile della realizzazione di programmi di approfondimento dell’informazione giornalistica. Successivamente, il Tribunale di Roma, con sentenza del 15 febbraio 2005, (che si può leggere su www.legge-e-giustizia.it), conferma le precedenti decisioni e precisa inoltre che la RAI dovrà affidare a Michele Santoro solo programmi da trasmettere in prima o in seconda serata, in quanto la c.d. “fascia oraria” di collocazione dei medesimi attiene alla qualità delle mansioni, tutelata dall’art. 2103 cod. civ.
In sostanza, il principio di diritto espresso dal Supremo Collegio tutela ad ampio raggio le mansioni: il concetto di equivalenza, sul quale si incardina il principio dello jus variandi del datore di lavoro, non copre infatti solo le mansioni del lavoratore, ma anche l’arcipelago circostante, che comprende le condizioni lavorative che sulle stesse influiscono.
Venendo al caso di specie, il richiedente afferma di essere stato dequalificato per una diversa distribuzione dei compiti lavorativi nell’ambito delle funzioni di sviluppatore e per aver subito una diminuzione retributiva a causa del progressivo riassorbimento dell’assegno ad personam.
Riguardo alla modifica delle mansioni, occorre valutare in concreto l’incidenza di tale provvedimento sul livello professionale raggiunto dal dipendente, sulla sua collocazione nell’ambito aziendale, e sulla rilevanza del suo ruolo. Se infatti il provvedimento aziendale determina una significativa sottrazione di mansioni con una conseguente diminuzione del globale livello delle prestazioni ed una apprezzabile menomazione della professionalità, oltre che alla perdita di chance, di ulteriori potenzialità occupazionali e di ulteriori possibilità di guadagno, lo stesso si configura senz’altro come illegittimo.
Quanto all’assegno ad personam – trattandosi probabilmente di questione non risolta dalle parti pattiziamente – la giurisprudenza afferma che lo stesso è riassorbibile negli aumenti della paga sindacale, dei quali costituisce, in sostanza, una anticipazione, a meno che tale carattere non sia stato esplicitamente escluso, ovvero il premio sia stato attribuito in considerazione a particolari meriti del lavoratore, od alle particolari qualità della prestazione dallo stesso fornita (Pret. Prato, 17 febbraio 1992, in Toscana lavoro giur., 1992, 387). Nella specie, dunque, il lavoratore dovrebbe dimostrare che il trattamento economico individuale migliorativo del contratto nazionale gli è stato assegnato in ragione del riconoscimento delle capacità professionali: la progressiva eliminazione dello stesso costituirebbe pertanto un illecito non solo sul versante “quantitativo” ma anche sul piano “qualitativo” della posizione professionale.
Il parallelismo con la vicenda del giornalista televisivo, nella specie, potrebbe dunque ravvisarsi sotto il profilo della dequalificazione operata attraverso l’aggressione agli aspetti complementari delle mansioni, quali quelli inerenti alle concrete modalità di espletamento delle capacità lavorative. Nel caso Santoro, infatti, la modifica della c.d. “fascia oraria” della trasmissione ha determinato la dequalificazione, incidendo la stessa sull’ascolto, (c.d. audience), che è il metodo di misurazione della professionalità; nel caso prospettato dal richiedente, invece, si potrebbe azzardare l’ipotesi – fermo restando che per una valutazione esaustiva del caso occorrerebbero maggiori informazioni – che la riorganizzazione degli incarichi, accompagnata dalla modifica del compenso, determinano un serio nocumento alla professionalità del lavoratore, la cui identificazione sul mercato dipende sia dalla quantità e qualità della clientela trattata sia dalla retribuzione percepita in misura non solo variabile ma anche fissa.
Il richiedente, qualora la sua pretesa possa essere ragionevolmente essere inquadrata nello schema della dequalificazione secondo le coordinate sopra evidenziate, potrà far accertare dal giudice l’illegittimità del comportamento datoriale e tentare di ottenere il ripristino della propria posizione lavorativa, oltre che il risarcimento dei danni subiti.

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE:
QUALI LIMITI PER L’AUDIZIONE DEL LAVORATORE?

Corte di Cassazione, sezione lavoro, 13 gennaio 2005 n. 488 (il testo completo si trova su www.cortedicassazione.it)

Allorquando il lavoratore, destinatario di una contestazione di addebiti, svolga le proprie difese in forma scritta e chieda contestualmente di essere sentito di persona, il datore di lavoro ha l’obbligo di aderire alla richiesta del lavoratore di essere ascoltato, e, ove il lavoratore non si presenti all’incontro per malattia, la determinazione del datore di lavoro di non aderire alla richiesta di fissazione di un nuovo incontro, non concretizza violazione dell’art. 7, l. 20 maggio 1970 n. 300.

La sentenza la cui massima viene sopra riportata si segnala per il discutibile principio di diritto nella stessa enunciato, nonché per gli spunti che dalla stessa possono trarsi per migliorare i metodi di difesa del lavoratore nell’ambito del procedimento disciplinare (art. 7, l. n. 300/1970).
Nel caso affrontato nella sentenza in esame, dunque, un lavoratore bancario viene licenziato a seguito di una ispezione che evidenzia l’effettuazione da parte di quest’ultimo di operazioni non conformi ai doveri contrattuali. Dopo l’accertamento di illegittimità del recesso operato dal giudice di primo grado, in appello e in cassazione la sentenza viene riformata con conseguente dichiarazione della legittimità del provvedimento datoriale di recesso.
In sostanza il supremo collegio afferma che il datore di lavoro è obbligato a dare seguito alla richiesta del lavoratore di essere sentito oralmente “(...) solo allorquando la stessa risponda ad effettive esigenze di difesa non altrimenti tutelabili e non quando, invece, la richiesta appaia dettata da fini meramente dilatori o sia stata avanzata in modo equivoco generico o immotivato, ovvero emerga che la sua difesa si è già esercitata esaustivamente attraverso le giustificazioni scritte”.
In sostanza la decisione introduce alcuni aspetti generici ed arbitrari non contemplati dall’art. 7, l. n. 300/1970: fra questi, uno è che la richiesta di essere sentito oralmente deve essere formulata dal lavoratore se esistono effettive esigenze di difesa; un altro è che le giustificazioni scritte possono di per sé esaurire il diritto di difesa del lavoratore.
L’approccio della Cassazione al problema pare tuttavia assolutamente criticabile: la norma statutaria, infatti, non pone condizioni al diritto di difesa del lavoratore, per cui il datore di lavoro deve esperire tutti i livelli della procedura disciplinare prima di irrogare la sanzione. Diversamente opinando si introdurrebbe una pericolosa crepa nell’iter procedurale che legittimerebbe la possibilità di deroga in base a valutazioni arbitrarie ed unilaterali del datore di lavoro.
In attesa di un (auspicabile) ripensamento della giurisprudenza sul punto, pare opportuno suggerire al lavoratore, nel caso in cui sia sottoposto ad un procedimento disciplinare, di inserire nella propria lettera di giustificazione l’espressa riserva di manifestare ulteriori motivazioni difensive nell’ambito dell’audizione, almeno per evitare che queste siano tout court giudicate esaustive.