di Sofia Cecconi Consulente Legale Fabi  
 
Risposte ai quesiti
 
Novità giurisprudenziali
  “MOBBIZZATO” DAI COLLEGHI,
DEV’ESSERE RISARCITO DAL DATORE DI LAVORO.

Lavoro da alcuni anni presso un istituto di credito e, dopo avere svolto senza problemi la mia attività presso l’ufficio fidi, sono stato (da meno di un anno) spostato all’ufficio corriere dove mi occupo prevalentemente dell’apertura, dello smistamento della corrispondenza in arrivo e di fare le fotocopie. Tale nuova attività – che a quanto riferitomi, a voce, dovrebbe essere temporanea – è particolarmente dequalificante ed è per me causa di forte ansia e stress psicologico; a ciò deve aggiungersi che i rapporti personali con i colleghi sono diventati particolarmente tesi e, molto spesso, vengo fatto oggetto di scherzi verbali e/o di iniziative poco edificanti, di cui peraltro sono a conoscenza i miei superiori, anche se fingono di non vedere (...). Vorrei sapere quali iniziative posso intraprendere per tutelare i miei diritti e, soprattutto, la mia salute.

(lettera firmata)

 
 

LLa questione sottoposta dall’iscritto si mostra particolarmente interessante, sia perché mette ancora una volta in luce la sorprendente diffusione del fenomeno “mobbing” nell’ambito degli uffici (non solo bancari), sia perché offre lo spunto per segnalare una recente decisione della Corte di Cassazione, (Cassazione Sezione Lavoro n. 6326 del 23 marzo 2005), che ha trattato un caso analogo, dando piena soddisfazione ai diritti del lavoratore.
Dopo un altalenante iter giudiziario, infatti, la banca è stata condannata sia al risarcimento del danno cagionato al lavoratore per il demansionamento (in misura pari al 50% del trattamento economico corrisposto per il periodo dedotto in giudizio), sia al risarcimento del danno biologico e del danno psichico derivato al dipendente per lo stato ansioso depressivo insorto a causa delle vicende lavorative persecutorie.
La Suprema Corte, a proposito di tale ultimo aspetto, ha precisato che il “globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”, consistito in una serie di comportamenti ed episodi verificatisi nell’ambito lavorativo, (quali, ad esempio, scherzi verbali ed altro), integra senza dubbio gli estremi della fattispecie del “mobbing” e determina la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro anche se i comportamenti scorretti sono ascrivibili ai propri collaboratori. E ciò a norma dell’art. 2087 c.c., che obbliga l’imprenditore ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.
Venendo al caso di specie, dunque, si suggerisce all’interessato di far presente – con chiarezza e per iscritto – alla direzione la propria condizione di demansionamento e di stress dovuto all’ambiente lavorativo, chiedendo di adottare i provvedimenti opportuni per rimuovere la situazione pregiudizievole. Con riferimento allo stato di salute si consiglia, inoltre, al lavoratore di comprovarlo attraverso un idoneo certificato medico che attesti la sussistenza della patologia lamentata come conseguenza delle vicende lavorative; nel caso in cui il datore di lavoro non dia alcun riscontro alla richiesta, il lavoratore potrà valutare la possibilità di agire giudizialmente per far valere i propri diritti.

IL SOLO RINVIOA GIUDIZIO NON GIUSTIFICA
IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE


CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA DEL 7 MARZO 2005 N. 4838.

È illegittimo il licenziamento intimato sulla base di un mero ed automatico riferimento ai fini disciplinari al rinvio a giudizio del lavoratore per reati di falso documentale in titoli di credito, non essendo tale circostanza idonea ad incidere negativamente sul rapporto fiduciario in assenza di verifica concreta dei fatti addebitati in sede di procedimento disciplinare

NOTA
La sentenza sopra indicata si segnala per l’importante principio di diritto espresso in materia di giusta causa di recesso. La decisione, in sostanza, afferma che il licenziamento in tronco non può fondarsi su fatti indimostrati, come il rinvio a giudizio in sede penale, bensì deve essere frutto di una seria e ponderata valutazione delle circostanze contestate al lavoratore che il datore di lavoro è tenuto ad effettuare nell’ambito del procedimento disciplinare.
La vicenda che ha portato alla decisione in commento è la seguente. Un dipendente della Banca di Roma era stato rinviato a giudizio con l’imputazione di falso documentale e di truffa; in seguito a ciò la banca lo aveva licenziato, con motivazione riferita al pregiudizio recato dall’episodio al prestigio della banca.
Un anno dopo il lavoratore era stato assolto da ogni imputazione ed aveva impugnato il licenziamento per mancanza di giusta causa e/o di giustificato motivo; la banca in giudizio si era difesa sostenendo che il solo rinvio a giudizio fosse sufficiente a giustificare il licenziamento per le conseguenze negative che dallo stesso erano derivate.
La Suprema Corte, come nei precedenti gradi di giudizio, ha invece dichiarato illegittimo il licenziamento, dal momento che ha ritenuto come il semplice rinvio a giudizio di un dipendente non possa di per sé nuocere alla credibilità della banca presso il pubblico e che, prima della definitiva condanna penale, il datore di lavoro avrebbe dovuto verificare, in sede di procedimento disciplinare, la sussistenza dei fatti addebitati.