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“MOBBIZZATO” DAI COLLEGHI,
DEV’ESSERE RISARCITO DAL DATORE DI LAVORO.
Lavoro
da alcuni anni presso un istituto di credito e, dopo avere svolto senza
problemi la mia attività presso l’ufficio fidi, sono stato
(da meno di un anno) spostato all’ufficio corriere dove mi occupo
prevalentemente dell’apertura, dello smistamento della corrispondenza
in arrivo e di fare le fotocopie. Tale nuova attività – che
a quanto riferitomi, a voce, dovrebbe essere temporanea – è
particolarmente dequalificante ed è per me causa di forte ansia
e stress psicologico; a ciò deve aggiungersi che i rapporti personali
con i colleghi sono diventati particolarmente tesi e, molto spesso, vengo
fatto oggetto di scherzi verbali e/o di iniziative poco edificanti, di
cui peraltro sono a conoscenza i miei superiori, anche se fingono di non
vedere (...). Vorrei sapere quali iniziative posso intraprendere per tutelare
i miei diritti e, soprattutto, la mia salute.
(lettera firmata) |
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LLa
questione sottoposta dall’iscritto si mostra particolarmente interessante,
sia perché mette ancora una volta in luce la sorprendente diffusione
del fenomeno “mobbing” nell’ambito degli uffici (non
solo bancari), sia perché offre lo spunto per segnalare una recente
decisione della Corte di Cassazione, (Cassazione Sezione Lavoro n. 6326
del 23 marzo 2005), che ha trattato un caso analogo, dando piena soddisfazione
ai diritti del lavoratore.
Dopo un altalenante iter giudiziario, infatti, la banca è stata
condannata sia al risarcimento del danno cagionato al lavoratore per il
demansionamento (in misura pari al 50% del trattamento economico corrisposto
per il periodo dedotto in giudizio), sia al risarcimento del danno biologico
e del danno psichico derivato al dipendente per lo stato ansioso depressivo
insorto a causa delle vicende lavorative persecutorie.
La Suprema Corte, a proposito di tale ultimo aspetto, ha precisato che
il “globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”,
consistito in una serie di comportamenti ed episodi verificatisi nell’ambito
lavorativo, (quali, ad esempio, scherzi verbali ed altro), integra senza
dubbio gli estremi della fattispecie del “mobbing” e determina
la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro anche se i
comportamenti scorretti sono ascrivibili ai propri collaboratori. E ciò
a norma dell’art. 2087 c.c., che obbliga l’imprenditore ad
adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità
fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.
Venendo al caso di specie, dunque, si suggerisce all’interessato
di far presente – con chiarezza e per iscritto – alla direzione
la propria condizione di demansionamento e di stress dovuto all’ambiente
lavorativo, chiedendo di adottare i provvedimenti opportuni per rimuovere
la situazione pregiudizievole. Con riferimento allo stato di salute si
consiglia, inoltre, al lavoratore di comprovarlo attraverso un idoneo
certificato medico che attesti la sussistenza della patologia lamentata
come conseguenza delle vicende lavorative; nel caso in cui il datore di
lavoro non dia alcun riscontro alla richiesta, il lavoratore potrà
valutare la possibilità di agire giudizialmente per far valere
i propri diritti.
IL SOLO RINVIOA GIUDIZIO NON
GIUSTIFICA
IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE
CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA DEL 7 MARZO 2005 N. 4838.
È illegittimo il licenziamento intimato sulla
base di un mero ed automatico riferimento ai fini disciplinari al rinvio
a giudizio del lavoratore per reati di falso documentale in titoli di
credito, non essendo tale circostanza idonea ad incidere negativamente
sul rapporto fiduciario in assenza di verifica concreta dei fatti addebitati
in sede di procedimento disciplinare
NOTA
La sentenza sopra indicata si segnala per l’importante principio
di diritto espresso in materia di giusta causa di recesso. La decisione,
in sostanza, afferma che il licenziamento in tronco non può fondarsi
su fatti indimostrati, come il rinvio a giudizio in sede penale, bensì
deve essere frutto di una seria e ponderata valutazione delle circostanze
contestate al lavoratore che il datore di lavoro è tenuto ad effettuare
nell’ambito del procedimento disciplinare.
La vicenda che ha portato alla decisione in commento è la seguente.
Un dipendente della Banca di Roma era stato rinviato a giudizio con l’imputazione
di falso documentale e di truffa; in seguito a ciò la banca lo
aveva licenziato, con motivazione riferita al pregiudizio recato dall’episodio
al prestigio della banca.
Un anno dopo il lavoratore era stato assolto da ogni imputazione ed aveva
impugnato il licenziamento per mancanza di giusta causa e/o di giustificato
motivo; la banca in giudizio si era difesa sostenendo che il solo rinvio
a giudizio fosse sufficiente a giustificare il licenziamento per le conseguenze
negative che dallo stesso erano derivate.
La Suprema Corte, come nei precedenti gradi di giudizio, ha invece dichiarato
illegittimo il licenziamento, dal momento che ha ritenuto come il semplice
rinvio a giudizio di un dipendente non possa di per sé nuocere
alla credibilità della banca presso il pubblico e che, prima della
definitiva condanna penale, il datore di lavoro avrebbe dovuto verificare,
in sede di procedimento disciplinare, la sussistenza dei fatti addebitati.
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