di Leonardo Comucci Consulente CAAF Fabi Nazionale    
Fisco no problem con il caaf-fabi
Sentenze tributarie la condannano - Tutti la odiano e la sua abolizione è uno dei rarissimi punti di convergenza tra maggioranza e opposizione. Perché allora la sua cancellazione è stata ancora rinviata?
   

La Corte di Giustizia Europea ha giudicato l’Irap in contrasto con l’ordinamento comunitario, bocciandola senza appello.
Sentenze tributarie la condannano.
Tutti la odiano e la sua abolizione è uno dei rarissimi punti di convergenza tra maggioranza e opposizione.
Più in generale, l’orientamento dell’opinione pubblica ha espresso il desiderio di arrivare in tempi brevi alla riduzione dei carichi fiscali che gravano sull’impresa, come condizione necessaria per rilanciare la nostra economia e la strada più semplice sembra proprio quella dell’abolizione dell’Irap, sempre annunciata e anche questa volta rinviata.
Una prima considerazione, di ordine generale, interessa i sistemi fiscali: essi richiedono, prima di tutto, stabilità e giustizia e, quando sono necessari degli aggiustamenti, è indispensabile procedere con particolare attenzione e meditazione, senza annunci mediatici, poi smentiti.
Soprattutto, il sistema fiscale italiano non può diventare un ring di pugilato per scazzottate tra i diversi schieramenti politici.
Ma sull'Irap c'è stata una totale convergenza di sentimenti e intelligenze a favore della sua abolizione: sindacati, Confindustria, maggioranza e opposizioni sono uniti nell'obiettivo. Cambiano solo tempi e modi (in funzione di un vincolo di bilancio pubblico sempre più stringente).
Non c'è dubbio che si tratti di un tributo “ad antipatia diffusa”: l'Irap ha una larga base imponibile ed è a bassa elusione. Proprio per questo – paradossalmente - è studiata in altri Paesi che accarezzano l'idea di imitarla e d’importarla a casa loro.
Per cercare di capire un po’ meglio quali effetti vengono prodotti dall’Irap e cosa può derivare dalla sua abolizione, è necessario soffermarsi sull’incidenza del prelievo fiscale e contributivo e sulla retribuzione media dei lavoratori dipendenti nei diversi paesi. Tale incidenza rappresenta il cosiddetto "cuneo fiscale", una misura sintetica dell'effetto distorsivo del prelievo riferito al lavoro dipendente.
In presenza di imposizione, l'entità di questo “cuneo fiscale” può essere diversa, anche a parità di pressione fiscale complessiva, in relazione alla differente composizione del gettito (maggiore o minore incidenza di imposte dirette, indirette e dei contributi sociali). Un cuneo fiscale più elevato rappresenta in linea di principio un onere maggiore sul fattore lavoro.
È evidente che una elevata tassazione del “lavoro” non favorisce l’occupazione, anche se ovviamente grande importanza continua ad avere la pressione fiscale complessiva. L'obiettivo della riduzione dell’Irap è, quindi, condivisibile, ma la questione merita ancora qualche ulteriore approfondimento.
Innanzitutto, il "cuneo fiscale " è più elevato per i Paesi che basano il loro sistema di welfare (soprattutto le pensioni) sul prelievo contributivo, che non per quelli che ricorrono maggiormente alla fiscalità generale e, quindi, risulta maggiore per Italia, Francia e Germania, rispetto al Regno Unito o ai Paesi scandinavi.
Questo comporta che in alcune nazioni, per ridurre il "cuneo fiscale" oltre un certo limite, è necessario intervenire riformando alcuni importanti aspetti del sistema del welfare.
Inoltre, il cuneo fiscale può essere suddiviso in due parti: il prelievo contributivo a carico dell'impresa e le imposte e i contributi a carico dei lavoratori: ambedue hanno l'effetto di ridurre la retribuzione netta rispetto a quella lorda o al costo del lavoro.
Il "cuneo" può essere ridotto sia riducendo i contributi sociali, sia riducendo l'imposta sul reddito: l'effetto distributivo finale sarà lo stesso, e in tutti e due i casi si ridurrà l'impatto negativo della tassazione sul fattore lavoro.
Esiste, tuttavia, una differenza tra le due soluzioni: se si riducono gli oneri a carico delle imprese l'effetto contabile sui bilanci sarà immediato, se si riducono imposte e contributi sui lavoratori, i benefici per le imprese saranno successivi e mediati dalla contrattazione, e ciò spiega perché le imprese preferiscono la prima soluzione, e noi sindacati la seconda.
L’eliminazione dell’Irap, quindi, comporterebbe indubbi vantaggi, ma bisogna capire su quale parte della busta paga finirà la conseguente riduzione del cuneo fiscale: sugli oneri a carico dei datori di lavoro, oppure sullo stipendio netto che va in tasca ai lavoratori, aprendo spiragli per rinnovi contrattuali più sostenuti?
Se lo scopo immediato è aumentare il potere d'acquisto delle buste paga, anche senza intervenire sull’Ire (ex Irpef), può essere sufficiente escludere dalla base imponibile Irap i contributi sociali, oppure più semplicemente fiscalizzare gli oneri contributivi sui salari più bassi a carico dei lavoratori.
Se, invece, l'obiettivo è quello di migliorare la competitività delle imprese e dell'intero sistema produttivo, esistono misure meno costose e più efficaci anche agli occhi degli investitori internazionali. Per esempio, si potrebbe portare l'aliquota Ires (ex-Irpeg) al 20% (attualmente al 33%) e unificare allo stesso livello l'imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie (attualmente sdoppiata al 12,5% e al 27%). Ciò attrarrebbe investimenti esteri (le multinazionali sono molto attente all'imposta sugli utili) e semplificherebbe il sistema fiscale. Il tutto, con un onere per il bilancio pubblico pari indicativamente alla metà dell'eliminazione dell'Irap sul solo costo del lavoro.
Ma l’attuazione di queste proposte non è agevole, soprattutto per la carenza di risorse e la difficoltà di trovarne di nuove, con il ventilato ma impopolare aumento delle imposte indirette.
Un aumento dell'Iva, per esempio, non appare opportuno per i suoi effetti sui prezzi, in un contesto di caduta del potere d'acquisto delle famiglie. Analogamente, un aumento delle accise sui carburanti, in un contesto di forte aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi come quello attuale, non appare la soluzione ideale.
E così ogni tentativo di modifica del sistema fiscale si scontra sempre e necessariamente con le esigenze pressanti di gettito e se, per ora, l’Irap rimane in vigore è certo che alcuni contribuenti (in particolare professionisti e imprese prive di organizzazione), forti della sentenza della Corte di Giustizia Europea che li ha dichiarati non assoggettabili all’imposta, potranno non versare l’acconto. Questo condurrà alla ricerca di ulteriori risorse, magari attraverso il promesso taglio degli sprechi (che vuol dire, in generale, tagli alla spesa) e la lotta all’evasione (con il conseguente auspicabile recupero della tassazione, anche attraverso misure contro l’erosione fiscale e l’elusione).
Queste dovrebbero essere le vere “manovre strutturali” capaci di portare un reale positivo effetto, non solo transitorio, sui conti pubblici, ma che mai nessun governo ha avuto il coraggio di attuare fino in fondo.
Paradossalmente, quindi, la mancata abolizione dell’Irap, derivante principalmente dalla difficoltà di trovare risorse alternative in grado di compensare, in termini di gettito, quelle che verrebbero a mancare, ha avuto il merito di scontentare tutti o quasi: le imprese, che si aspettavano un aiuto per uscire dalla crisi, e noi lavoratori, che speravamo di vedere una parte della riduzione del costo del lavoro concretizzarsi nella nostra busta paga.
Una vera e propria occasione perduta e, in aggiunta, la prospettiva certa di una futura manovra finanziaria, che potrebbe essere indirizzata alla ricerca di nuove entrate, orientandosi magari sull’aumento di quegli odiosi piccoli balzelli, che non vengono conteggiati nel paniere dell’inflazione, come il prospettato aumento (fortunatamente ad oggi è solo una ipotesi) dell’imposta da versare in attesa dell’esito dei contenziosi davanti alle commissioni tributarie (dal 50 al 75%)!

     
>>
Che cos’è l’Irap?
  Cerchiamo di spiegarlo nella maniera più semplice