di Sofia Cecconi Consulente Legale Fabi  
 
Risposte ai quesiti
 
Novitą giurisprudenziali
 

LO SPOSTAMENTO, PER MOTIVI DISCIPLINARI, A MANSIONI DIVERSE (E PER DI PIŁ INFERIORI)
COSTITUISCE PROVVEDIMENTO ILLEGITTIMO

Sono un dipendente bancario e fino a pochi mesi fa mi occupavo della “Gestione Portafoglio Clienti”, ruolo che ho ricoperto per più di dieci anni. A seguito di un provvedimento disciplinare che, oltretutto, ha coinvolto anche altri Colleghi mi sono state assegnate mansioni diverse, per lo più di contenuto generico, ripetitivo e del tutto prive della benché minima responsabilità. In tale frangente sono stato oltretutto spostato dalla Filiale alla Direzione (....). Mi sento leso non soltanto nella professionalità ma anche nei rapporti con la clientela, con i Colleghi (...). Alla luce di quanto esposto, vorrei sapere come poter tutelare al meglio la mia posizione.

(lettera firmata)

Il problema – che presenta due nodi critici fondamentali – va esaminato alla luce della disciplina legislativa e della giurisprudenza sullo jus variandi e sul potere disciplinare del datore di lavoro.
Riguardo al primo aspetto, occorre ricordare, come peraltro più volte detto nel corso di questa rubrica, che l’art. 2103 c.c. sancisce l’obbligo di adibire il prestatore di lavoro “(...) alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”. Secondo il nostro ordinamento, dunque, il datore di lavoro, nel modificare le mansioni del dipendente, deve rispettare la professionalità di quest’ultimo anche con riferimento all’esperienza maturata nel corso del rapporto.
La giurisprudenza prevalente ha poi affermato che “devono considerarsi inferiori quelle mansioni che, rispetto alle precedenti, comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore” (v. Cass., n. 7789/1993; Cass., n. 4561/1995; Cass., 14666/2004) ed è soltanto un orientamento minoritario quello che, per la modifica delle mansioni, consente di far leva su una capacità professionale potenziale del lavoratore, suscettibile di sviluppi anche in direzioni sostanzialmente diverse rispetto al bagaglio di nozioni acquisite (v. in tal senso Cass., n. 5098/1985; Cass., n. 9584/1990; Cass., n. 276/1995).
Quale conferma dell’orientamento prevalente sopra evidenziato, v’è poi quella giurisprudenza che impedisce l’adibizione del lavoratore a mansioni che, pur inquadrate nel medesimo livello contrattuale, richiedono però l’applicazione di conoscenze non rispondenti alla specifica competenza del prestatore e alla professionalità da questo maturata, tanto da non garantire allo stesso un arricchimento del proprio patrimonio di esperienze (in tal senso v., di recente, Cass. n. 13187/2005, che in un caso analogo a quello ora esposto ha ribadito la necessità di “accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali”).
Con riferimento all’altro aspetto sopra evidenziato, v’è da rilevare che l’art. 7, comma 4º , st. lav. (l. n. 300/1970), nel sancire il divieto di irrogare sanzioni che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro, vieta in sostanza gli spostamenti e/o la retrocessione di mansioni, adottata a titolo di sanzione.
In tale prospettiva, qualora il lavoratore possa dimostrare che lo spostamento a mansioni diverse, peraltro meno gratificanti da un punto di vista umano e professionale, sia stato disposto unicamente per motivi disciplinari sarà possibile invocare l’illegittimità del provvedimento per contrasto con l’art. 7 st. lav. (a tal riguardo v. recentemente Cass., n. 13187/2005; Cass., n. 11520/1997; Cass., n. 5797/1991; nel merito, v. Pret. Milano, 19.01.1989).
Venendo al caso di specie, dunque, il richiedente – ove sussistano i presupposti sopra evidenziati – potrà eventualmente tutelarsi, impugnando la modifica delle mansioni sia sotto il profilo della carenza dell’equivalenza professionale, sia sotto il profilo della connotazione disciplinare del provvedimento.

 

SULL’OBBLIGO DELL’ INVIO DEL CERTIFICATO MEDICO
IN CASO DI MALATTIA INSORTA ALL’ESTERO

CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, 24 GIUGNO 2005, N. 13622
La regola di cui all’art. 3 d.l. 30 dicembre 1979 n. 663, convertito in legge 29 febbraio 1980 n. 33, la quale impone al lavoratore l’obbligo di recapitare o trasmettere al datore di lavoro, entro due giorni dal relativo rilascio, il certificato di diagnosi e l’attestazione sull’inizio e la durata della malattia, nonché quello di indicare il domicilio durante la malattia stessa, è applicabile, in base ai principi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c. c., anche all’ipotesi di malattia contratta all’estero.

Nota
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione affronta l’interessante questione relativa all’invio della certificazione medica di malattia al datore di lavoro qualora il dipendente abbia contratto la malattia all’estero.
Pur ribadendo l’assoluta mancanza di una specifica normativa in argomento, il Supremo Collegio, sulla base di principi generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), ritiene che anche nell’ipotesi di malattia contratta all’estero, vi sia l’obbligo del dipendente, (ai sensi dell’art. 2 d.l. n. 663/1979, convertito in legge n. 33/1980), di inviare al datore di lavoro per raccomandata con avviso di ricevimento il certificato medico attestante la malattia, nonché quello di indicare – per finalità di controllo – il proprio domicilio durante la stessa.
La sentenza tuttavia non specifica alcunché circa le modalità attraverso cui il lavoratore deve procurarsi il certificato medico.
A tale proposito l’INPS ha emanato delle precise disposizioni (v. circolare n. 11 del 14 settembre 1990 e n. 136 del 25 luglio 2003), differenziando il comportamento da tenere in caso di malattia insorta in Paesi stranieri convenzionati con l’Italia o membri dell’Unione Europea e quella verificatasi in Paesi terzi.
Per quanto concerne i primi due Paesi il lavoratore deve rivolgersi all’istituzione sanitaria estera competente a disposizione del quale il lavoratore dovrà mettersi in caso di malattia; quest’ultima provvederà poi a trasmettere all’INPS la certificazione medica acquisita; mentre il lavoratore dovrà comunque documentare al proprio datore di lavoro, entro due giorni dalla data di rilascio del certificato, il suo stato di malattia.
Con riferimento invece ai Paesi stranieri che non hanno stipulato con l’Italia Convenzioni o Accordi specifici che regolano la materia, l’interessato deve far pervenire all’INPS e al datore di lavoro, entro due giorni dal rilascio, la certificazione medica originale appositamente legalizzata a cura della rappresentanza diplomatica o consolare italiana operante nel territorio estero.
Sulla base della sentenza in commento, nonché delle disposizioni INPS sopra evidenziate, si prospetta un quadro assai complesso di adempimenti in capo al lavoratore che si ammali all’estero. Seppure discutibile, la regola dell’invio del certificato medico dovrebbe applicarsi – alla stregua dei principi di correttezza e buona fede di cui sopra – anche ai dipendenti delle aziende del credito, nonostante il loro trattamento di malattia non sia indennizzato dall’INPS; mentre, l’iter descritto dall’ente previdenziale per ottenere la certificazione medica idonea dovrebbe essere ritenuto necessario soltanto in caso di malattia di esclusiva competenza dell’INPS.