di Sofia Cecconi Consulente Legale Fabi  
 
Risposte ai quesiti
 
Novità giurisprudenziali
 

SUGLI OBBLIGHI DEL LAVORATORE IN TEMA DI
LAVORO STRAORDINARIO

Sono una dipendente bancaria e lavoro come impiegata dell’ufficio del personale presso la Direzione Centrale, occupandomi, fra le altre cose, anche della predisposizione delle buste paga. Nel corso degli ultimi anni la banca ha esteso la propria attività ed ha acquisito nuove filiali con conseguente aumento di lavoro per il mio ufficio (...). Da un anno a questa parte, dunque, sono spesso costretta a prolungare il mio orario normale di lavoro. Tale situazione sta divenendo insopportabile in quanto non mi permette di conciliare il lavoro con gli impegni familiari. Vorrei sapere se posso rifiutarmi di prestare il lavoro straordinario che mi viene richiesto.

(lettera firmata)

Il datore di lavoro ha la possibilità di richiedere prestazioni aggiuntive al lavoratore nei modi e con i limiti previsti dal contratto collettivo, ove questo sia dal medesimo applicato.
La nuova disciplina in tema di orario di lavoro (d.lgs. n. 66/2003) stabilisce infatti che, in difetto di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso soltanto “previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore” (art. 5, comma 3). Di conseguenza, laddove il contratto collettivo autorizzi il lavoro straordinario, non sarà necessario il consenso del lavoratore, ritenendosi implicitamente conferito tramite l’adesione del singolo alla normativa collettiva all’atto dell’assunzione.
La facoltà del datore di lavoro di richiedere al dipendente la prestazione di lavoro straordinario assume una particolare coloritura con riferimento ai dipendenti delle aziende di credito. Il contratto collettivo di tale comparto, infatti, da un lato, prevede espressamente la possibilità dell’impresa di chiedere al dipendente prestazioni lavorative aggiuntive al normale orario giornaliero nel limite massimo di due ore al giorno o di 10 settimanali (art. 97); dall’altro, introduce una netta distinzione tra prestazioni di lavoro aggiuntive fino a 50 ore l’anno, le quali non costituiscono straordinario ma bensì strumento di flessibilità con diritto al recupero obbligatorio da parte del dipendente secondo le modalità previste e, prestazioni aggiuntive che sforino il limite delle 50 ore, che danno invece diritto al compenso per lavoro straordinario. Il lavoro straordinario non deve tuttavia superare le 100 ore nell’anno solare.
La disciplina convenzionale è in tal senso nettamente più favorevole per il lavoratore rispetto a quanto disposto dal dettato legislativo secondo il quale il ricorso al lavoro straordinario non deve superare le 250 ore annue (art. 5, comma 3).
Venendo al caso in esame, la dipendente non potrà rifiutarsi di prestare attività lavorativa aggiuntiva qualora tale richiesta sia contenuta nei limiti appena indicati. Un’eventuale diniego da parte della medesima potrà infatti essere valutato alla stregua di un inadempimento sanzionabile disciplinarmente dal datore di lavoro, fatto salvo il giustificato motivo di rifiuto della lavoratrice e la possibilità di verifica ex post circa il fatto che il potere discrezionale dell’imprenditore sia stato esercitato secondo le regole di correttezza e buona fede poste dagli art. 1175 e 1375 c.c. nel contenuto determinato dall’art. 41, 2º comma, cost. (v. in tal senso Cass., sez. lav., 5.08.2003, n. 11821; Cass., sez. lav., 19.02.1992; Cass., sez. lav., 7.041982, n. 2161).
Oltre tale soglia, la dipendente potrà invece legittimamente opporsi alla richiesta di prestare lavoro straordinario, venendo oltretutto in gioco la più ampia tutela degli interessi connessi all’integrità psico – fisica dei lavoratori (art. 32 Cost.), alla cui finalità è sottesa la stessa disciplina legislativa, nel pieno rispetto dei principi costituzionali sullo sviluppo della vita privata di ciascun cittadino e – in questo senso – anche del lavoratore (in senso conforme v. Cass., sez. lav. 01.09.1997, n. 8267).

 

SUL DIRITTO AL CONGEDO STRAORDINARIO
DI FRATELLI E DI SORELLE IN CASO DI ASSISTENZA
AL FAMILIARE PORTATORE DI HANDICAP

Corte Costituzionale sentenza 16 giugno 2005 n. 233
È fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevede il diritto di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con il soggetto con handicap in situazione di gravità di fruire del congedo ivi indicato, nell’ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all’assistenza del figlio handicappato perché totalmente inabili.

 

Con la sentenza di cui alla massima in epigrafe la Corte Costituzionale riscrive la disciplina sui permessi per i lavoratori che assistono i portatori di handicap in modo da renderla coerente con la ratio legis e le necessità emerse dalla sua concreta applicazione.
In breve i fatti. Una lavoratrice aveva chiesto all’INPS di poter fruire del congedo straordinario della durata di due anni, previsto dall’art. 42, quinto comma del decreto legislativo n. 151 del 26 marzo 2001, per poter prestare assistenza al fratello convivente, portatore di handicap grave, facendo presente che suo padre era deceduto e che sua madre era affetta da invalidità totale, con diritto all’indennità di accompagnamento. Il rigetto della domanda, motivato dal fatto che la legge invocata prevedeva il diritto, per il fratello o la sorella del soggetto portatore di handicap, al congedo straordinario, solo nel caso di avvenuta scomparsa di entrambi i genitori, è stato ritenuto legittimo nella causa che ne è seguita innanzi al Tribunale di Vercelli; nel giudizio di appello presso la Corte di Torino è stata invece sollevata la questione di illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, della norma di legge in questione, rilevandosi che essa irragionevolmente regola in modo difforme situazioni fra loro analoghe, quali sono quella del genitore deceduto o assente e quella del genitore totalmente inabile, pur essendo comune ad entrambe le ipotesi l’impossibilità del genitore di provvedere all’assistenza del figlio handicappato.
La Corte Costituzionale ha ritenuto la questione fondata giacché la ratio legis della disposizione normativa sarebbe quella di favorire l’assistenza al soggetto con handicap grave mediante la previsione del diritto ad un congedo straordinario da parte di familiari abili.
Tale importante decisione è stata immediatamente recepita dalla circolare INPS del 29 settembre 2005, n. 107, la quale dà atto della possibilità, in caso di totale inabilità di entrambi i genitori o di un solo genitore (se l’altro è deceduto) di figli in condizioni di handicap grave, di riconoscere il congedo di cui trattasi anche a fratelli o sorelle conviventi con il soggetto gravemente disabile.